Areapangeart - Incontri d’arte a Camorino
dal 6 febbraio al 17 aprile 2017
A prima vista parrebbe non esservi attinenza alcuna tra gli elementi in ceramica di Michela Torricelli e le incisioni di Loredana
Müller, sebbene entrambe le produzioni si possano ascrivere a un raffinato esercizio di variazioni delicatissime che si attuano
all'interno della dialettica di ripetizione/variazione, frammento/totalità. Osservando, però, da vicino la materia gessosa eppure
serica della ceramista, seguendo dappresso le infinite inclinazioni dei piccoli monoliti, le superfici che sembrano essersi appena
riprese da un accartocciamento, e che vanno dispiegando, ora, la grana dei pori, le asperità e le rugosità e, un attimo dopo, gli
spigoli e le concavità, si nota che non riusciamo più ad ancorare tale materia a un referente, a una sostanza prelevata dalla realtà,
che ci riporti a un'elaborazione che mantenga, cioè, un ancoraggio con le origini. Il materiale appare allunato, ha subito una sorta di
metafisica manipolazione che gli ha fatto smarrire le usuali caratteristiche e si presenta come elemento nuovo, totalmente ricreato.
Così come la forma, in cui detta sostanza si rapprende, è difficilmente riconducibile a una figura familiare. Potrebbe essere un
contenitore, un involucro; vien quasi voglia di romperlo per guardare dentro, com'era il nostro desiderio infantile dinanzi a un
pupazzo che se aveva sembianze umane non si poteva dire vivente.
Il lattiginoso bianco è quasi un simbolo di immacolata purezza, di intangibilità materiale. Ci chiediamo a che cosa rapportare la stele
e, osservandola, non ci rendiamo conto che essa penetra ancor di più nella nostra confidente disponibilità. Sorta di selce, utensile
preistorico, iceberg, parete scoscesa di ghiacciaio, oggetto ricoperto da un telone, falesia, sono solo alcuni dei rinvenimenti
analogici che ci sovvengono ammirando queste superfici impresse, lavorate tramite pressione di altre materie, la cui texture è rimasta
intrappolata, quasi una memoria ancestrale oppure la memoria della materia tutta. Seguiamo le incredibili peripezie o spericolate
acrobazie della superficie opaca e invitante, morbida e riflettente, scavata - i canaloni in cui l'ombra si rapprende - o le
cascate di luce sulle pareti sbrecciate. Anche la loro aggregazione in gruppi richiede un intervento del fruitore, un suo
pronunciamento. Alcuni elementi sembrerebbero addirittura scarti di lavorazione, a cui, grazie al recupero, sia stata concessa un'altra
vita. Se ne stanno sul piano, adunati in serie, ma anche separati, pronti a far scattare un ritmo, una ripetizione che è già
variazione.
Ora, sia detto con chiarezza, le trasformazioni della forma, come in musica, non hanno un'importanza secondaria, ma sono
presupposto imprescindibile per il contenuto e il significato dell'opera, lì dove il contenuto non si dà attraverso il significato
linguistico, ma è, appunto, desunto dalla forma stessa. Le incessanti metamorfosi del materiale dato, mediante i più diversi
processi di trasformazione, danno vita al ritmo, alle sfumature, alle dinamiche, alle ripetizioni, ai contrasti e sono
rintracciabili esclusivamente all'interno dello specifico manufatto. Ecco che, dunque, se vogliamo stringere un laccio fra
le opere ceramiche di Michela Torricelli e le incisioni di Loredana Müller non possiamo farlo che sul piano formale e, dunque,
materico.
Quanto avevamo detto per le ceramiche della Torricelli, lo ritroviamo anche nelle regole che soggiacciono alle costruzioni incisorie
della Müller, non riuscendo ad avere la certezza che il ramo con le foglie lunghe e sottili si trovi invero intrappolato all'interno
della stessa carta; facciamo fatica a comprendere se i racemi siano impressi, se traspaiano o se siano fisicamente inglobati nella
trama vegetale. I segni rendono la carta simile a una lastra sulla cui lapidea pelle siano incisi, e simili al disegno di una
filigrana, le impalpabili ramificazioni delle piante. Ma anche qui potremmo essere di fronte a ciò che resta, un sudario, un erbario
fossile in cui il vegetale ha assunto la consistenza della sostanza ospitante, mentre il colore si incarica di alludere alla profondità
ed esprimere le varie sovrapposizioni ed è, pertanto, una sorta di indicatore che fa saltare i diversi periodi succedutisi, nella
collezione dei segni, poiché a ciascun colore non corrisponde un'univoca datazione. La presenza del colore essendo, peraltro, nella
Müller sempre presente e alludente a una chimica che presiede sia all'organico che all'inorganico, intercettando una zona indecidibile.
Una distanza incolmabile separa l'oggetto rappresentato dell'oggetto reale: le piantine raccolte, se sono incise sulla carta,
stilizzate, raffrenate nel moto e nella crescita, sono anche divenute schema, pianta originaria in una foresta di piante originarie.
Ecco, dunque, che non solo le due artiste svizzere ci sembrano - dopo questa riflessione - accumunate da una equivalente attitudine a
tramutare la sostanza, la quale da nota trapassa a sconosciuta o inconsueta, quanto anche contemporaneamente intente a coartare il
tempo espungendolo dallo spazio. Che tempo e spazio viaggino insieme è dettato scientifico, esperenziale, ma, si sa, l'arte ha la
capacità di rendere estraneo o non credibile proprio ciò che diamo per scontato. Nei monoliti bianchi della Torricelli o nel fossile
erbario della Müller, il tempo ha perso la capacità di valere come sistema di misurazione cronologico.
Tramite la variazione, la quale produce uno slittamento formale, si ha un mutamento infinitesimo, ma costante, il quale è usato da
entrambe le artiste come un grimaldello che estrometta il contesto, la totalità, al fine di focalizzare l'attenzione esclusivamente sul
dettaglio. Il dettaglio, ciò che è singolare, è insostituibile: entità a cui restare aggrappati, a meno di non perdere il
contenuto stesso di ogni conoscenza, come da dettato kantiano, è la cifra segreta rispetto alla quale il moto impresso nei
monoliti di ceramica o nelle veline stratificate della carta emerge in primo piano. In particolare, il moto, che la posizione
vorticante delle foglie e dei virgulti mette in atto, causando la perdita dell'orientamento assieme alla rotazione percettiva del
foglio, nelle opere della Müller, mentre nella Torricelli è quello delle superfici azionate dai volumi che si torcono. Lo spazio
riemerge senza tempo, perché la variazione è insita nella forma, e cambia incessantemente, senza più riuscire a infiggersi o
collocarsi.
Le opere, dissaldando il congegno percettivo dello spazio e del tempo, consentono l'emersione del procedimento di alterazione delle
sostanze: le loro forme, ferme e sbilenche sul baratro delle apparenze, provocano una vertigine e affermano che arte non consente la
normale percezione della materia. Di fronte alla collocazione di opere ceramiche e incisorie, le quali si susseguono senza soluzione di
continuità nello spazio espositivo di Areapangeart, sappiamo che la materia dell'arte è sostanza non esistente in natura.
Rosa Pierno