momenti in sala espositiva

 

RITA IACOMINO

 

 

 

 

 

Nata nel 1962. Nel 1989 vince il Premio Montale con la silloge Luoghi impraticabili della memoria (Scheiwiller, 1990). Seguiranno le raccolte poetiche Dura Verticale (1999), Amore di Silvia e Atlante (2010, Premio Logos), Poemetto tra i denti (2011, premio Quaderni di Lìnfera) e Diario di un finto inverno (2018). Nel 2016 partecipa con l’operetta Ariadna Rewind (musica di A.Mendizabal) al Festival Pépète Lumière di Lione.

 

 

 

Acquario

 

 

 

Vivendo nell’acquario

 

non dispose di parole

 

fu lusso di colori e pena

 

per chi lo vide e seppe

 

una morte lenta:

 

immergersi cantando

 

con l’iride ostinata.

 

(da Dura Verticale)

 

 

 

 

 

Paesaggio della vita insonne

 

dell’acqua emozionale che si assesta

 

nei ritmi centripeti animali

 

dell’anima che principia

 

nella vita minima

 

su cui non pesa il tempo

 

su cui l’azzurro s’apre

 

nostra discolpa e salvezza

 

 

 

(da Amore di Silvia e Atlante)

 

 

 

 

 

Schiele

 

 

 

Ventotto anni di febbre

 

per scandagliare la morte in ogni forma.

 

Ne ha scrutato il respiro marcio negli amplessi

 

fissata nella solitudine della vedovanza.

 

Ma l’orfano è già morto

 

nascere e morire sono la stessa cosa.

 

È bianca la morte

 

è un albero

 

uno scheletro d’inverno,

 

summa dell’atroce ricognizione.

 

Non c’è tempo, ci dice, ma solo destino.

 

 

 

(da Poemetto tra i denti)

 

 

 

Da Diario di un finto inverno

 

 

 

Le scarpe

 

 

 

Guardo le scarpe di mio marito.

 

Non è che in casa vi sia un’altra scarpa simile

 

io non porto scarpe simili.

 

È insolita, una forma insolita eppure è una scarpa

 

ma a me sembra diversa una cosa insolita una cosa extraterrestre ecco

 

è come quando si è ubriachi e le cose appaiono abnormi

 

una visione ma piccola da visionari inesperti.

 

Penso cammini

 

penso che potrei provarla e vedere come si muove

 

potrei calzare una scarpa insolita ficcare il piede nel buio di una scarpa con la sua

 

[bocca aperta

 

aprire la bocca di soprassalto

 

entrare nel buio di una bocca e volerci rimanere.

 

 

 

 

 

La montagna

 

 

 

Io non ho mai visto una montagna

 

cioè ne ho guardate tante ma viste proprio no.

 

È che ogni volta c’è una nebbia, una foschia, una bruma.

 

A volte il luccichio del sole che frantuma la visione

 

in altre circostanze la distanza si riempie di chiarori umidi

 

e poi ci sono i temporali.

 

Solo una volta, a Ferentino credo, stavo per cogliere il momento propizio.

 

Poi fui distratta da qualcosa e me ne dimenticai.

 

 

 

 

 

Significati

 

 

 

Le cose che avevano significato

 

anche, all’improvviso, lo persero.

 

Le cose che avevano significato

 

anche, all’improvviso, non l’avevano..

 

Le cose che avevano significato

 

anche.

 

Anche, all’improvviso, le cose si persero.

 

All’improvviso il significato.

 

Il significato improvviso.

 

 

 

 

 

Destinazione

 

 

 

Alberi allineati, cespuglio, volpe.

 

Alla fermata di Colleferro, ferraglie.

 

Fuori dal treno il mondo muore.

 

Sfuggo alla morte per quale destinazione?

 

 

Un caro saluto a tutti i presenti, ringrazio Rita Iacomino arrivata ieri da Roma, per questa nostra serata, Gilberto Isella un valore aggiunto per questo nostro centro culturale, una serata in ACQUAPOETICA: questo nome nasce proprio da una visita di Gilberto al mio studio prima che aprissimo nel 2014, dove lesse ACQUAFORTE, e subito prontamente mi disse ecco le serate dedicate alla poesia le chiameremo ACQUAPOETICA. Per i non addetti acquaforte è l'acido nitrico per lo zinco o il solfato di rame per il rame, acido che va a corrodere, a scavare lì, dove noi tracciamo i segni, superando la vernicetta di protezione. Ecco le nostre serate di poesia intendono scavare e anche scalfire forse la superficie. Ora un filo che unisce il perché di questo racconto, ho qui del 2012 una plaquette, in tiratura piccolissima, solo 8 esemplari, da dividere tra l'artista che invito e la sottoscritta, quattro e quattro,

 

Questi due numeri hanno molto a che fare con la scultura iniziale di Antonio Tabet. Il gioco consisteva, dato un formato assai piccolo di lastra di zinco, far nascere un’incisione calcografica anche da artisti non avvezzi, un incontro un dialogo, e pretendere una parola...avvenne con Antonio Tabet, che ringrazio di essere presente e aver riposto fiducia, in questa avventura, che guarda caso generò un taglio e due asporti dalla lastra, facemmo una granitura o acquatinta per dargli uno sfumato di colore, la sua parola era EVASI gli risposi trame...Nel 2015 avvenne la stessa richiesta a Rita Iacomino anche lei fece la sua lastra e mi diede la sua parola, SUPERFICIE a cui risposi meraviglia. Rita è poeta e artista visivo, ci conosciamo dai tempi dell'Accademia di Belle Arti di Roma...e seppur rincontrata poeta volevo farla partecipare con l'immagine...per concludere questo secondo aneddoto, ebbene ogni otto parole chiamavo un poeta che avrebbe dovuto includerle in un suo testo e qui non poteva mancare Gilberto Isella, assieme a Maria Rosaria Valenti, Marco Vitale, Alberto Nessi, era previsto Giorgio Orelli, Primerio Bellomo, Domenico Vuoto, e perché no potremmo continuare con Rita Iacomino...Rosa Pierno.

 

Ora siete appena scesi dal primo piano, dove per motivi non solo marginali, è il legno che domina, e non sono poche le poesie dove Rita Iacomino si confronta con l'albero, forse oserei dire con il padre, come con le radici o le scarpe, i calzari, il paesaggio e il suo viaggio...Credo che le impressioni riportate, seppur molto diverse, abitano alcune di queste parole, forse in entrambi gli artisti e parlano però di madre; in sala espositiva, i flussi i grembi, i moti ciclici, e i relativi dettami logici.

 

Il bianco su bianco di Di Capua è un poco una sposa promessa, dove argini e aste condizionano. E nel lavoro di Tabet, grembi, nascite, una sua opera ha un titolo per es. parto pubblico, riscontro come forme di danze sciamaniche su un asse, geometria espansiva a volte metamorfosi. Rita come Gilberto lavora anche con la sperimentazione della parola, con il teatro, Rita è anche artista visiva, seppur la penna forse le è più connaturata. L'ultima fatica di Rita è stato DIARIO DI UN FINTO INVERNO, dove la copertina è di Giulia Napoleone, per concludere anche Giulia ha giocato con noi con immagine e parola. Ecco l'immagine a punzone su rame, tecnica diretta, e alla sua parola L'ALTROVE, gli risposi esserci. Ebbene ora mi taccio e lascio la parola ai nostri ospiti, vi invito di seguito ad intervenire.Grazie L. Müller

 

 Gilberto Isella presenta Rita Iacomino

Il percorso poetico di Rita Iacomino è già abbastanza sostanzioso perché se ne possano evidenziare gli elementi portanti. Un’autodefinizione per cominciare, una poetica in nuce: “Mi rendo conto del delirio/ scrivere è fermare la devastazione”. Un solenne atto di sopravvivenza, insomma, dove l’ansia, seppure avvertibile, verrà spesso temperata dal gioco verbale e dal canto. In Rita gli sbalzi d’umore non sfociano nel grido, la sprezzatura sorveglia il verso. Nei primi due volumi colpisce la ricerca di un’espressione essenziale, tesa a evidenziare la dimensione sorgiva, aurorale, del tema e dell’oggetto. Come se la realtà chiedesse di venir còlta negli elementi primari, nella sua arkhé. Vedi l’acqua in Amore di Silvia: “Paesaggio della vita insonne/ dell’acqua emozionale che si assesta”. Questa linea di condotta lascerà le sue tracce in futuro, dal profilo stilistico. Ma se la tonalità, all’altezza della prima raccolta Dura Verticale, è sostanzialmente lirica, via via che ci avviciniamo all’ultima, Diario di un finto inverno, il lirismo lascia il posto a una dizione vicina al parlato, alla prosa, tanto da far pensare appunto al genere diaristico. Il quale acquisterà una fisionomia originale e tutt’altro che scontata: “Scrive di un Diario redatto a freddo, dunque in inverno ma in un inverno finto, fantastico, fantomatico”.

 

L’elemento visivo, direi l’ossessione del vedere, è a mio giudizio il fil rouge che collega una raccolta all’altra. Lo sguardo, l’immagine, lo specchio, la realtà posta a confronto con l’opera d’arte, l’ombra che insorge dalla luce e viceversa. “Volevo dominare il tempo (vincere battaglie con lo sguardo”). È come scrutare dentro il groviglio dell’atto visuale, conscio e inconscio. Là dove si rivelano il “viceversa”, il chiasmo ottico, gli ambigui “clins d’oeil” della cosa scritta. La prima sezione di Diario s’intitola a ragion veduta Osservatorio comune.

 

Lo sguardo risulta quasi sempre speculare, in costante movimento tra interno ed esterno: “Guardo un albero che mi guarda”, “sei dentro e ti vedo fuori”, ecc. In Dura Verticale la problematica del vedere - del vedere entro il silenzio – veniva assunta, in un caso preciso, dall’”iride ostinata” del pesce (ovviamente privo di parola) che sta per morire. Evento che, si presume, sopravviverà nella memoria del riguardante. Altro indizio di rilievo, ancora nel primo libro, è l’accostamento tra il vedere e la scrittura. Nel testo di p.59, la scrittura sarà “di guardia/ a questo affresco discialbato”, con l’auspicio che il colore furoreggi poi.

 

Ritroveremo la memoria dell’affresco citato in Poemetto, dove la figura a cui si accenna, forse il Cristo sotto tortura, tiene “la benda sugli occhi”. Tocchiamo così un tema interconnesso al primo, quello della morte. Come se l’atto del vedere, soprattutto nell’opera artistica, fosse, prima di ogni altra cosa, una dolorosa meditazione sul morire (vedi la riflessione implicita in Schiele).

 

L’opera più matura, almeno finora, è l’ultimo libro. Un Diario vero e proprio? Lo confermerebbe un elemento: la dilatazione dei versi, spesso a misura di prosa. Ma la scrittura diaristica di Rita, che non corrisponde a una meccanica registrazione di fatti, è fertile e ricca d’incognite. Il tempo puntuale e atomizzato, l’attimo che investe le cose stesse (come direbbe Husserl), genera una serie di variazioni ‘concatenate e slittanti’: ossia quella durée che per Bergson non è se non il tempo della coscienza-memoria, dunque il tempo autentico. Prendiamo il componimento d’apertura Le scarpe. “Guardo le scarpe di mio marito” (Le poesie iniziano sovente col verbo guardare). Frase banale e inerte, se non presentisse qualche forma di suspense. Ma non appartiene a Rita il neutro oggettivismo, come quello coltivato dal poeta Giampiero Neri. Già nel terzo verso compare l’”insolito”. Vale a dire, il dato empirico e minimo vien subito deformato o decostruito dal fantasticare ‘ebbro’, grazie a un processo denominato Entfrendung, straniamento. La scarpa divien quasi extraterrestre e si muta in visione.

 

In fondo la visione non è che la prova per assurdo di ciò che nel reale sempre manca. Lacanianamente, il reale è un buco, un punto nero, una faglia asimbolica. Il coup de génie di Rita è di aver assimilato la scarpa al “buio di una bocca”, cavità inquietante dove lasciarsi andare e perdersi. Non cerchiamo però sovrasensi, dovremo fare a meno di universi paralleli. Siamo di fronte a una scrittura laica, nell’ordine del disincanto, punteggiata di ironiche malinconie (i luoghi della perdita, se vogliamo). Questa realtà in continua evoluzione-involuzione trova verifiche nella lingua. Lingua che spesso fa leva sui giochi di parole, bisticci, paronomasie. Es. “inforcare/forca”, “breve/bravo/brevità” nell’ultima poesia. Il toponimo Colleferro diviene ferraglie. Il Ghirlandaio inghirlanda, ecc. Perizie verbali, quasi per insinuare il sospetto che il mondo circostante sia tutto una finzione. Ma il fingere non è forse la virtus magna della poesia? La sua arma segreta per frenare la devastazione?

 

 

 

Gilberto Isella