Bologna, 22 aprile
1961 Caro
Thelonious Monk,
ho avuto occasione di ascoltarla la
notte scorsa (1), grazie ad una fortunata coincidenza del tutto inaspettata. Mi trovavo a Milano per visionare alcune incisioni, destinate ad una prossima esposizione in Germania (2), e sono
rimasto ospite da un amico che mi ha inviato al suo concerto. Nonostante la mia limitata conoscenza di questo genere di musica, sono rimasto colpito dal suo timbro musicale, così preciso e
disarticolato allo stesso tempo, in grado di generare una melodia che ricorda la forma solida e granitica delle rocce del mio Appennino. Sedevo piuttosto vicino al palco, e ho ancora impresso il
movimento delle sue dita tese come bacchette sulla tastiera, che invece di muoversi velocemente scolpivano il ritmo con un’economia di note sorprendente.
Ma le ragioni di questa lettera
provengono da alcuni interrogativi recenti, a cui la sua musica, con modalità a me sconosciute, sembra rispondere. La ricerca artistica genera sempre domande a cui, in alcuni casi, soltanto
l’autore può dare risposta, e quando questa risposta non si genera dall’interno del proprio linguaggio, l’ascolto di ieri mi conferma che può giungere dall’esterno, quando l’espressione artistica
possiede la medesima forza. Le scrivo a riguardo una confidenza di quelle che si fanno ad una persona sconosciuta che, in un particolare momento della propria vita, si percepisce come un amico di
vecchia data. Le spiego meglio. Da circa un mese lavoro, nella mia casa di Grizzana, ad una serie di paesaggi in cui cerco un nuovo rapporto spaziale e cromatico tra gli elementi della
composizione (3). Così, per qualche giorno, ho installato il cavalletto nel giardino di fronte ai due alberi da cui si intravede nel retro uno scorcio della casa, costretto però a lasciare
puntualmente la tela bianca dopo essermi arreso più volte. Ragionavo sull’esistenza di una determinata tecnica adatta a tradurre quello che volevo fare, ovvero trovare un segno in grado di
esprimere il significato che attribuiamo ad una parola come pittura, o musica nel suo caso. Questa mattina, sul treno che mi riportava a Bologna, ho capito che questa domanda non ha mai ragione
di essere formulata, poiché la tecnica è sempre un accadimento di una visione interiore, e dunque non esiste un modo di rappresentare le cose, soltanto un modo di sentirle, nella speranza poi che
questo sentimento abbia un valore universale. Si pensa generalmente che dato il modello ne si può ottenere la forma, in un determinato stile piuttosto che in un altro, seguendo i suggerimenti che
dispiega la storia che ci precede. Ma la tecnica è un incidente, mai un progetto, poiché è proprio il discorso artistico, quello più vero e profondo, che mette in crisi la relazione tra il nostro
sguardo e la realtà di tutti i giorni, giocando d’anticipo sul pensiero dell’autore, e creando ogni volta un gesto "su misura”. In margine alla nuda realtà, all’evidenza delle cose oggettive, lo
sguardo di un artista può permettersi un certo grado di miopia, spingendo il suo sguardo nello spazio in cui il mondo che già conosciamo possiede una seconda vita. Così ogni opera d’arte non è
che la possibilità di avere altri occhi, di moltiplicare una realtà non più di fronte a noi, ma scavata nel nostro vissuto, nel nostro piccolo mondo di esseri umani.
La sua musica, se mi permette signor
Monk, mi sembra di questa qualità, in grado di cogliere l’essenza di un discorso musicale calato non tanto nella capacità dell’autore di dare dignità allo strumento, quanto piuttosto del
servirsene per metterlo da parte, lasciando il suono come unico protagonista della scena. Una stessa essenza che si rinnova nella forma, come in Bach o in Mozart, la cui arte è quella degli
antichi di sempre, quella che scavalca civiltà e storia, attraverso un’utopia, tutta squisitamente umana, di dare un peso alla breve vita di un uomo. Con rinnovata stima e
gratitudine Suo Giorgio Morandi
1) Thelonious Monk Quartet, Teatro
Lirico di Milano, 21 aprile 1961. (Thelonious Monk, piano; Charlie Rouse, sax tenore; John Ore, contrabbasso; Frankie Dunlop, batteria).
2) Morandi si riferisce alla mostra
nella città di Siegen, che gli dedicherà una personale con diciannove dipinti e tredici acqueforti alla Haus Seel am Markt, conferendogli il Rubenspreis per la pittura.
3) Morandi si riferisce ad una serie
di cinque dipinti, eseguiti nel 1961, in cui si ripete il motivo della casa che spunta da dietro gli alberi. Nello specifico, il dipinto di cui parla nella lettera, è il paesaggio appartenente al
Museo Morandi ("Paesaggio”, olio su tela, cm 50,5 x 30,5, 1961), parte di un gruppo di quaranta paesaggi, che dal 1959 al 1963, rappresentano il vertice dell’espressione pittorica
dell’artista.