Scrisse egli il cantore della Ginestra: 

VIRTÙ VIVA SPREZZIAM, LODIAMO ESTINTA

Buonasera a tutti, avete appena colto l'esposizione particolare L'ombra dell' angelo, e siamo alla quinta serata per tentare e dare spunti e approfondimenti all'esposizione, che vede in dialogo L'illustrazione non nuova ma colma di simbologie di Aurora Ghielmini, gli arazzi di Madeleine Läubli, che tra un fatto tradizionale sono atto artigianale alto e quasi pop, popolare per alta accezione del termine; la scultura tra pietra e legno di Piergiorgio Donadini, che indaga un principio o primitivo stare e essere natura e una visione più focosa, o attiva nella ricerca di appartenenza...le carte Kalighat che appartengono ad un artista di Calcutta, ed è Kali nella religione induista che si veste di buona e cattiva madre, dirbbe C.G.Jung...e la vediamo con in grembo Ganescha, o la sua controparte umana l'essere blu Vishnu, e sempre per quell'ironia e compresenza di cultura, l'arcangelo Michele, che non credo appartenga alle divinità induiste, ma sappiamo che ospitano sempre idee o dei altri ...ma il cerchio si apre; come un Gandhi dall'induismo arriva a proclamare quella sua concreta idea di azione e immedesimazione nella pace, come Sidartha induista pure lui che arriva a generare la sua visione del Budda...Unitamente in sala espositiva sta anche  il mio lavoro che un poco cerca di unire e tessere visione, quali soglie o ascese, è fatto complesso, forse  dove attimi luminosi generano corrispondenze, tra sospensione e auree.

 

( Vincenzo Guarracino non arriva per problemi di neve e di viabilità delle strade, e si scusa)

 

Oggi avremmo dovuto avere il piacere e certo l'onore di avere qui Vincenzo Guarracino, a parlarci di Leopardi, lui che ne è studioso da una vita. Parlarci  di un Giacomo giovane dove nei Dialoghi o meglio in quel " Appressamento dalla morte" toccherà la visione dell'angelo...Angelo necessario , oggi è l'ultimo libro di Massimo Cacciari, ma già compariva nel giovane Giacomo. Grandi testi che si rincorrono o fanno eco di ampio pensiero, Ora mi sposto o sposto il pensiero a...Angelus Novus sappiamo una prediletta visione e trascrizione di Walter Bengjamin legata ad un acquarello di Klee dove sconfortante era la visione e la previsione della seconda guerra mondiale. In areapangeart abbiamo presentato " La furia dell'angelo" di Gilberto Isella, presente anche questa sera e lo ringrazio.  Dove ecco che la visione diviene fatto di reazione-innovazione e libertà, ma anche canto e lirica d'ogni memoria,  continua penetrante dimensione da cercare tra le viscere e ogni profondità sacrale, escogitarle per vivere...Rammento Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, parte con una poesia che amava  Benjamin..."il bambino quando era bambino" dove un Bruno Ganz si chiedeva come aiutare e rispondere ad un umanità alla deriva; riconosceva i bambini come portatori di energie e visione necessariamente nuove, i bambini, i poeti, gli artisti, certo in modo diverso...e quel filo infinito dell'acrobata-ballerina del circo, quasi ombelicale...Ancora mi viene in mente L'angelo alla mia tavola un film di rara bellezza per intensità; della regista Jane Campion tratta dall'autobiografia di Janet Frame ( Neozelandese)dove era la scrittura la faccenda "angelica"...che salvava e portava a compimento crescita e carattere...senso e ascolto d'esso.

 

Ma nulla centra o forse rientra lì dove i quattro artisti, anzi cinque portano delle visioni in saletta, ogni ricerca un modo di affiancarsi al tema, chi come Madeleine ne ha fatto una scelta assoluta, "ero partita dagli animali"...mi diceva, ma poi gli angeli sono stati anche formalmente liberatori...chi lo elegge a motivi di natura simbolica, tra femmineo e nuovamente piante-animali...oppure esperienziale o di un immaginazione attiva sempre presente, corpo, mimesi e danze, vascelli e imbarcazioni fantasiose, o ancora per raccordare e un poco demistificare idiomi o gli stessi dei , che come direbbe Kerenj tornerebbero sempre a noi al nostro bisogno di elevare e portarci oltre la contingenza di ogni nostra esperienza. Farla essere così esistenza. Segno-sogno.

 

Ora torniamo alla fine del settecento 1798, quando a Recanati nasceva Giacomo Leopardi, alla sua Biblioteca alla sua storia nei primi dell'ottocento. Pensando alla brevità,  termina la sua vita nel 1837 . Credo  tutti noi lo abbiamo a cuore e in memoria, e questo suo scritto giovanile poco conosciuto. È certo un preludio e un affondo, lì dove già presente stava una vita colma di amarezza eppure anche di proiezioni letterarie e visioni morali ed etiche, di una bellezza che ancora oggi apprezziamo. Le suo Operette Morali, i Dialoghi Della natura e di un anima - Della moda e della morte - Di un folletto e di un Gnomo...qualche anno prima eccoci all'Appressamento della morte che è del 1816-17

 

Appressamento della morte.

La cantica non è la Commedia, ma non è nemmeno il componimento «brevissimo» affermato da Giacomo nella lettera del 21 marzo 1817 al Giordani; si tratta pur sempre di «cinque canti, che sommano in complesso dugento novantuna terzine; – ottocento settantotto i versi, essendove ne cinque di più per la chiusa d’ogni canto, secondo la regola» (così Zanino Volta, 1880, scopritore dell’autografo originale nella sua casa di Como, e bistrattato ma benemerito editore della prima edizione del componimento, della quale riporto il frontespizio a fianco). Cui bisogna aggiungere le postille, che hanno non solo valore documentario, ma lasciano intravedere il rapporto, duraturo e senz’altro affettivo, del poeta nei confronti della sua creatura.

 

(Qui si doveva inserire Vincenzo Guarracino, vedi corpo del suo excursus alla fine.)

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Ascoltiamo di Gioacchino Rossini, Overture dal Barbiere di Siviglia da una registrazione diretta da Abbado...

 

 

Dico che l’effetto della musica spetta principalmente al suono. Voglio intender questo. Il suono (o canto) senz’armonia e melodia non ha forza bastante né durevole anzi non altro che momentanea nell’animo umano. Ma viceversa l’armonia o melodia senza il suono o canto, e senza quel tal suono che possa esser musicale, non fa nessun effetto. La musica dunque consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e l’uno senza l’altro non è musica”. (Zib. 1934, 17 ottobre 1821). Cage, e tanti musicisti contemporanei non sarebbero stati d'accordo

C.G.Jung diceva quanto lo attraversasse la musica e quanto non aveva strumenti per comprendere cos toccasse "cocretamente"....

 

Nello Zibaldone ricorrono ben settantatré riflessioni sulla musica e, in sintesi, si può dire che la musica per lui ha la capacità di penetrare in maniera diretta il sentimento umano, di evocare ricordi e tradizioni, e di suscitare immagini poetiche come e in quanto natura; considera il suono naturale come substrato della musica, generatore delle sensazioni vago–indefinite che sono alla base della poetica dell’Infinito.

 

Dice Davide Rondoni: “un poeta attentissimo alla musica, dunque, e al rapporto tra silenzio, suono, evocazione, tradizione e novità. Non è un caso, quindi, che al poeta del ‘vedere’ è invece l’udito a rivelare una possibilità di infinito” (D. Rondoni, E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo, Fazi Ed. 2019).

 

In effetti, proprio quello che il poeta sente nel profondo è ciò che lo mette in condizione di cogliere la bellezza e la drammaticità di quello che vede, della realtà. È ciò che le scienze psicologiche riconducono alla cosiddetta posizione esistenziale dell’“uditivo” e al conseguente canale di comunicazione (cfr. M.T. Romanini, Costruirsi persona, La Vita Felice 1999).

 

Non sorprende quindi la sua predilezione, ad esempio, per La donna del lago, di Rossini, opera epico-sentimentale di prefigurazione romantica, con ampie sezioni corali e strumentali, melodie limpide ed accattivanti ed una bella ambientazione “naturalistica”. Ce ne dà conferma in parte il suo carteggio con il fratello Carlo, quando il 5 febbraio 1823 gli scrive da Roma:

 

Mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha cagionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina ‘La Donna del Lago’, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto”.

 

Una curiosità: Giovanni Mestica, ne Il verismo nella poesia di Giacomo Leopardi (Nuova Antologia, 1880) dice che nel Carnevale 1829, Leopardi a Recanati va a teatro per seguire Il Barbiere di Siviglia, e aggiunge: “quel direttore di orchestra, che io giovanetto conobbi già vecchio a Montecosaro, mi raccontava che Giacomo v’interveniva sempre, vestito semplicissimamente, con un soprabito di pelone sotto un mantello a bavaretti … più volte era entrato con lui in discorso su quella musica … e ammirando lo aveva sentito notare nella medesima le bellezze più fine, che all’orecchio delle persone imperite dell’arte non sogliono rivelarsi”.

Momento musicale sempre attorno a Rossini

 

Concludo oltre nel mostrarvi due libri d'artista che un poco corrispondono a delle linee o come ali genrali di questa sera LE PARCHE e ANIME...Le anime come direbbe Dante...anime

 

come noi...Lore

L’ANGELO NECESSARIO di Vincenzom Guarracino

Leopardi e la Cantica Appressamento della morte

 

 

 

APPRESSAMENTO DELLA MORTE, Cantica, 1816

 

 

La “cantica”, intitolata Appressamento della morte, in 5 canti in terzine dantesche, per complessivi 878 versi, fu composta a Recanati in un brevissimo lasso di tempo, addirittura “in undici giorni”, tra novembre e dicembre del 1816, e trova il suo motivo ispiratore nell’angoscia del poeta di dover scomparire senza aver ancora conosciuto la vita e lasciato nel mondo alcuna traccia di sé.

 

Il Poeta immagina di venir sorpreso da un’improvvisa tempesta in aperta campagna e di ricevere dall’Angelo Custode l’annuncio della propria morte imminente, con l’invito a considerare attraverso una serie di “visioni” la vanità delle cose terrene (c.I).

Accompagnato dall’Angelo, passa così in rassegna nel c. II la schiera dei dannati per amore, da quelli celebri dell’antichità (Antonio, Paride, Turno, Sansone, Salomone) fino ai più recenti (Enrico VIII d’Inghilterra e Ugo d’Este, che narra il suo infelice amore per la matrigna Parisina).

Dopo questi, nel c.III, incontra, preceduti rispettivamente da quattro mostri simboleggianti l’Avarizia, l’Errore, la Guerra e la Tirannide, i filosofi (Zoroastro, Pitagora, Zenone, Democrito, Antistene, Socrate, Platone, Aristotele, colpevoli ciascuno in vario modo perché “tenner sentieri oscuri e torti / un cercar verità”), i guerrieri famosi dell’antichità (Ercole, Achille, Agamennone, Alessandro, Ciro, Brenno, Pirro, Annibale) e infine tiranni (Tiberio,, Giulio Cesare, Periandro) e tirannicidi (Armodio, Timoleonte, Bruto).

Dopo aver assistito al passaggio dell’Oblio su un carro trainato da tartarughe, il poeta è guidato dall’Angelo alla contemplazione dei beati nella gloria del Paradiso, tra i quali scorge Davide, Dante, Petrarca, Tasso. Alla fine gli appaiono Cristo e la Madonna (c.IV).

Nel c.V, la “visione” si conclude e scompare l’Angelo. Il Poeta si ritrova così solo e sconsolato ad effondere, dopo aver pronunciato una commovente invocazione alla Vergine, il proprio dolore per l’imminente destino di morte, non senza comunque aver espresso il proprio alto convincimento e proponimento sulle prospettive future della sua vita: “Son vate: i’ salgo e ‘nver lo ciel m’avvento, / ardo fremo desio sento la viva / fiamma d’Apollo e ‘l sovruman talento”1.

 

Costruita” con un paziente lavoro di fagocitazione e assemblaggio dei materiali poetici più diversi (con echi e risonanze da Dante, per intenderci, fino ad autori praticamente contemporanei, come il Monti, l’Alfieri, il Foscolo e il Manzoni addirittura del Trionfo della libertà), l’opera merita attenzione, perché il Canto V si può considerare come la prima espressione significativa e personale nella carriera poetica leopardiana, una sorta di “prova generale” dei temi del Leopardi più maturo, e gli altri Canti, oltre ad attestare una non comune capacità di assimilazione del modello dantesco, modulano già nettamente motivi, immagini e ritmi che preludono alla poesia successiva, anche se non è esente da pecche sul piano sia contenutistico che stilistico, dovute alla giovanissima età (l’autore era nato nel 1798).

Nel marzo 1817 il manoscritto fu inviato in lettura attraverso l’editore milanese Antonio Fortunato Stella a Pietro Giordani ma resterà inedito anche perché disperso per tutta una serie di traversie, che l’edizione da me curata s’incarica di ricostruire).

Leopardi rinunciò a pubblicarla, ma non la dimenticò, e molti anni più tardi, con molte correzioni e varianti, dal i canto trasse un frammento (Spento il diurno raggio) che, riveduto e rielaborato, inserì nei Canti (xxxix).

 

Della cantica esistono due autografi: il primo, in ordine cronologico, fra le carte napoletane (presso la Biblioteca Nazionale di Napoli) col titolo Avvicinamento della morte; il secondo è conservato al Civico Museo Storico «G. Garibaldi» (ex Museo Giovio) di Como.

 

 

La scena

 

Le prime ombre della sera che calano su un placido paesaggio collinare; un uomo, il poeta, che, “sprezzando ira di gente e di fortuna”2, avanza incurante della dolcezza dell’ora e della scena; lontano, un’”eccelsa meta”3 e su tutto, con la sua calma bellezza da “favola antica”4, la luna: è la situazione d’apertura della cantica Appressamento della morte (1816), una situazione quanto mai suggestiva e simbolica, anche nel suo progressivo trascolorare da sereno a tempestoso, in un rapido drammatico sovrapporsi di sensazioni e atmosfere differenti, nel mentre si disegna “in quella tenebria selvaggia”5 la sagoma di uno Spirto benedetto, “raggiante come d’Espero la stella”6, l’Angelo annunciatore della morte vicina.

Come non sorprendersi dinanzi all’apparire così improvviso e perentorio della luna, proprio nel testo d’esordio della poesia leopardiana, soprattutto pensando al ruolo sempre più decisivo cui assurgerà, tra poesia e prosa, “la sorella del sole”7, con i suoi enigmatici silenzi e il suo argenteo chiarore artemideo?

Come non pensare alla straordinaria coincidenza di questo inaugurale paesaggio con un altro paesaggio e un’altra “landa”, mesta e desolata non meno di questa e dominata anch’essa da un “formidabil monte”8, addirittura nella Ginestra, ossia nel testo che conclude l’avventura creativa ed esistenziale del Poeta, racchiudendola in un cerchio di morte?

È in questo scenario, povero di uomini e di cose ma progressivamente torbido di fosche suggestioni e lampeggiante di presagi, che inizia e finisce la parabola della sua poesia Leopardi, tra lampi, nembi e tuoni, e la luna che lo abita e sovrasta sembra già qui definirsi, ambigua e beffarda, sullo sfondo vuoto del cielo, come un miraggio irraggiungibile, come un sogno complice e amorevole, con la sua luce destinata a vigilare sulle ombre che si addensano sempre più fitte e minacciose sull’orizzonte della vita e sul sogno di felicità del poeta non meno che di ogni uomo, al “limitar di gioventù”9 e alla vigilia della vita.

 

La Luna

 

Lunam canere lubet. / Te, Luna, canemus / sublimem, os argenteam. / Tu enim coelum habens, / quietae noctis imperium / nigrorumque somniorum tenes10 (“È la luna che vogliamo cantare. / E te canteremo, o Luna, / dalla faccia d’argento, sublime, / te che regni nel cielo / e governi la quiete della notti / e i neri sogni”): è questo il Leopardi del 1816 dell’odicina adespota, cioè anonima, qui in versione latina accanto a quella greca, Ad Lunam (“Alla Luna”), contenuta nelle Odae adespotae11 del ‘16, composte nei mesi che precedono la Cantica, che è il vero e proprio esordio poetico. È appunto nel ’16 che il poco più che adolescente scrittore va convincendosi del proprio “ingegno di poeta” che chiede di essere “vinto”12, sedotto dalla voce sorgente e “lucifera” della luna, ma che ancora non ha trovato il coraggio di dire io, di parlare in prima persona e perciò si attarda a mimetizzarsi nei fantasmi inquieti e inquietanti della sua notte, nei fantasmi del pastore Dameta13 o di Maria Antonietta14, senza sapersi ancora decidere a mettersi in gioco direttamente. E sì che già s’è convinto che “è il canto il più bello dei doni spettanti agli Dei”, come recita l’esergo teocriteo dell’apocrifo Inno a Nettuno15 dello stesso anno 1816!

Ma è che deve ancora intervenire quel qualcosa che gli trasformerà la vita, inducendolo da quel punto in poi a quel “perenne ragionar”16 col suo cuore e col suo dolore, in cui consisterà la cifra della sua lingua poetica; deve ancora intervenire il quid che darà finalmente l’avvio alla stagione delle consapevolezze e delle scelte, abbracciate con “eroico” furore nelle Canzoni cosiddette “civili”, in cui nella canzone Bruto Minore la luna compare sui “tempi” che drammaticamente “in peggio / precipitano”17 come spettatrice impotente e indifferente della tragedia esistenziale e storica dell’uomo, al pari di tutti gli altri esseri, fiere e uccelli che siano, condannati al proprio “consueto obblio”18, prima di concludersi nell’amara deplorazione della solitudine umana (“abbietta parte / siam delle cose”19) e nel rifiuto di ogni consolazione.

 

Il canto

 

Più tardi, ripensando a quei momenti, il poeta delle Ricordanze sintetizzerà così il suo stato d’animo: “Poscia per cieco / malor, condotto della vita in forse, / piansi la bella giovanezza, e il fiore / de’ miei poveri dì, che sì per tempo / cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso / sul conscio letto, dolorosamente / alla fioca lucerna poetando, / lamentai co’ silenzi e con la notte / il fuggitivo Spirto, ed a me stesso / in sul languir cantai funereo canto”20.

È da un “cieco malor”, covato in desolante solitudine nel “primo giovenil tumulto”21, dunque, che nasce l’impulso al “canto”: un canto segnato da stigmate dolorose e funeree.

Dalla paura della morte si dipana così un’invocazione disperata alla vita, giusto come dice in un passo dello Zibaldone, dove mette in drammatica correlazione di causa-effetto le due cose (“chi teme, canta”, 3527)22, lasciando prorompere, come un urlo selvaggio, sul desolato teatro notturno del proprio corpo e della propria immaginazione, sollecitata dai mille ambigui fantasmi dei mali della vita, l’affermazione di una tetragona e orgogliosa volontà di resistenza: “Son vate: i’ salgo e ‘ver lo ciel m’avvento, / ardo fremo desio sento la viva / fiamma d’Apollo e ‘l sovruman talento”(V, vv.43-45)23.

Ecco, è in questi toni alfieriani risolutamente autobiografici, che prende l’avvio la poesia di Leopardi, non senza comunque lasciar ambiguamente intendere che la conquista del “canto”, la coscienza di essersi attestato su un punto di non-ritorno, è veramente qualcosa di sentimentalmente e pateticamente essenziali, come rivelano alcune spie di questo stesso canto: “O dolci studi o care muse, addio. / Addio speranze, addio vago conforto / del poco viver mio che già trapassa. /…/ Povera cetra mia, già mi t’invola / la mano fredda di morte, e tra le dita / lo suon mi tronca e ‘n bocca la parola”24.

 

Una “conversione”

 

Un passo dello Zibaldone del 1° luglio 1820 (143-144) ci riporta a questi momenti, segnalando in essi l’avvio di quella che lui stesso chiamerà una vera e propria “conversione”, di un cambiamento totale di vita, come in una via di Damasco: “Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni di immagini, e delle mie letture poetiche io cercava di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba essere sempre un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perché mi pareva…che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero…Ben è vero che anche allora quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica…”25.

C’è in queste parole, individuata con dolorosa esattezza, la nascita del Leopardi poeta: la nascita di una volontà, se non ancora di una capacità, di canto, a partire da una “fantasia” ben vivida, da “affetti” da tradurre in “versi…pieni di immagini”, e insieme la consapevolezza della necessità di una lingua capace di incarnarla in un percorso di faticoso, progressivo apprendistato.

Una vera e propria “conversione”, come la chiamerà più tardi26, che affonda le sue radici in forti motivazioni personali e in ben concrete scelte intellettuali.

Io era oltremodo annoiato della vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomi sopra con un certo fremito, pensava…”27, confessa in una delle prime pagine dello Zibaldone risalente ai primi mesi del ’17, a ridosso di una lucida individuazione di una concreta via d’uscita, l’amore del “bello”, della poesia, alimentato dalla traduzione e assimilazione di classici e moderni (Orazio, innanzi tutto, Dante, Alfieri), come antidoto alla “ostinata nera orrenda barbara malinconia” che “lima” e “divora” la vita28.

Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e far mio quello che leggo, non han dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di comporre, non altri che la natura e le passioni ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire, fra me: questa è la poesia, e per esprimere quello che io sento ci vogliono versi e non prosa, e darmi a far versi”29: ecco delineato un destino, nell’identificazione della propria “lingua”, a partire dalla “traduzione”, che non significa, se non inizialmente, “volgarizzamento” ma soprattutto innesto di un’istanza creativa a partire dalla scoperta tematica e stilistica dei classici.

 

 

La scelta di una” lingua”

 

Intorno a quest’ultimo problema, Leopardi si interrogherà non poco, insistendo a più riprese sull’esigenza di “rompere violare disprezzare lasciare da parte interamente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi e di generi” per dare “una nuova poesia senza nome affatto”30, astraendo “da ogni idea ricevuta da ogni forma da ogni consuetudine”31, in un percorso che appare delineato attraverso i nomi degli autori indicato anche nello stemma disegnato nella lettera al Giordani, ossia Orazio, Virgilio, Alfieri e Dante32.

È all’inizio ovviamente, ma c’è già l’auspicio di “una lingua e uno stile ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati”, come dirà qualche anno dopo in una lettera a Pietro Giordani del 30 marzo 182033.

Orazio e Virgilio, in primo luogo: mens divinior34, il primo, dallo stile “rapidissimo e pieno d’immagini”35, energetico nei suoi effetti sul lettore, e Virgilio, modello di eleganza in tutti i secoli, non meno di Orazio36, fatto oggetto di un autentico culto (“Quando leggo Virgilio, m’innamoro di lui”37). Poi, Alfieri, suo “maestro ideale”38, al pari del Parini, per lo slancio alla gloria e alla nobiltà spirituale e morale, in una “pressione espressiva che si dirama fra prosa e poesia”39 soprattutto in età giovanile. E infine, ma non ultimo, Dante, il cui stile “è il più forte che mai si possa concepire” e “il più bello dilettevole possibile”40 e tale da essere per la sua Commedia il modello e “la migliore opera” del suo genere41, per sua forza immaginativa e la capacità di rappresentazione.

È per questo che inizia da Dante, quando ancora sta accordando e modulando strumenti e sentimenti con l’Appressamento della morte, l’ambiziosa cantica42 scritta quasi di getto “in undici giorni senza interruzioni”, tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1816, facendo così entrare la vita “la prima volta in pieno nella sua poesia”, come dice il De Robertis43? Sotto il segno di Dante: quasi a voler definire in termini inequivocabili la scelta della scrittura poetica, come momento dell’autenticità, con la coscienza della propria condizione di infelicità non disgiunta da fieri ed eroici propositi di ribellione.

Molti anni dopo, nel giugno del ’36, benché al culmine artistico ed esistenziale della sua “carriera”, in una lettera al giovane suo ammiratore francese Carlo Lebreton, ammetterà schermendosi di non aver “jamais fait d’ouvrage”, bensì “seulement des essais en comptant toujours préluder44 (di essere cioè convinto di non aver mai realizzato veramente alcuna opera, ma di averne soltanto disegnato degli abbozzi, nient’altro che “preludi” di una definitiva opera avvenire).

Se si riflette sul fatto che tra la prima e la seconda testimonianza passano quasi venti anni, si comprende la singolare coerenza di una ricerca che si sottrae nelle sue articolazioni ad ogni etichetta precostituita per mettere in scena una molteplicità di possibilità espressive, fedele al principio che è “il sentimento che l’anima al presente la sola musa ispiratrice del poeta”, come preciserà in una pagina zibaldoniana di fondamentale interesse45.

Fedele soprattutto a un principio, ben chiaramente delineato nel ’18, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, con cui prendeva fermamente posizione contro quelli che già nel ’16 aveva definito idolatri dei “poeti settentrionali”46, ossia i Romantici: “Noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di roba altrui; non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi”47

In questo la scrittura, che di volta in volta si diversifica in poetica (e in tal ambito, come poematica, idillica, elegiaca, civile), epistolare, filosofica e umoristica, modulerà le esigenze profonde di un io teso ad esorcizzare l’incombente rischio del silenzio, attraverso un’inesausta sollecitazione della parola nei registri di generi diversi nella forma ma omogenei e coerenti nelle intenzioni e nella sostanza.

Aggiungere “un filo alla tela brevissima della nostra vita”48

 

Ambizioni e propositi a parte, è evidente che, in questo itinerario, l’Appressamento della morte si colloca davvero agli inizi: al suo forte “sentire” corrisponde un’ancora debole e immatura capacità di “esprimersi” e questo perché della vera consapevolezza, che è la consapevolezza della coincidenza tra poesia e vita, ossia della necessità di essere “imitatore”49 soltanto di se stesso, il poeta ha ancora soltanto “un barlume”, ancora non gli riesce di superare l’ottica angusta di chi delle letture cerca sempre soltanto di “profittare”, come confessa nello Zibaldone50.

 

Tra “tema” e “spene”

 

Agli inizi, Leopardi è ancora un uomo senza voce e per giunta appesantito da non poche remore ideologiche e letterarie, uno che rischia di vedersi ridotto all’afasia dal gravame di “affetti” e di consapevolezza ma senza la concreta verifica della realtà. “Seppi, non vidi, e per sapere, nel seno / non si stingue la speme e non s‘acqueta, / e ‘l desir non si placa e non vien meno”, come riconosce nel canto V51, dopo che all’inizio del canto I si era confessato incerto e pieno dubbi, ma con ben fisso in mente che “la tema è saggezza, error la spene”52.

Tra “tema”, cautela vista come necessaria saggezza, e “spene”, speranza come fonte di illusioni, Leopardi non ha dubbi, sceglie la prima, la “saggezza”, come leggiamo anche nello Zibaldone, tra le pagine 66 e 105, in particolare in quest’ultima, dove, riflettendo sul “piacere del dolore”, dice che “per l’ordinario nel timore è più terribile il male”53. Come dire che la situazione di incertezza (“Un momento è letizia, e ‘l pianto dura”54) è vista, comunque, come consolante: come uno stato di privilegio, come in una condizione di bivio e di scelta.

In re, nelle cose, non in verbo, nella parola, è purtroppo la virtus, il valore, come concludeva amaramente l’infelice Bruto morente, in contrasto con l’etica del “presente”55: comincia insomma in questa pagina dello Zibaldone, a delinearsi, all’ombra dei Grandi del passato, la via della conoscenza, intesa come filo di una ricerca interminabile.

In re e non in verbo: è questo il tarlo che incrina le più robuste impalcature ideologiche del giovane Leopardi, è il germe della crisi che intacca definitivamente l’edificio di un’educazione giovanile fondato sui principi di un retrivo moralismo di onesta “dissimulazione”, per contrapporgli per ora soltanto un io smisurato e titanico, reso tale anche dal dolore, da un “cieco malor”.

A questo riguardo, una notazione molto acuta mi sembra quella che leggiamo nella biografia Vita di Leopardi di Rolando Damiani (Mondadori 1993, pp.100-101), secondo il quale la Cantica costituirebbe la certificazione di un “distacco” e l’avvio verso l’acquisizione di una definitiva identità: “se continuerà a vivere, avrà soltanto se stesso e la sua natura poetica, separata dal mondo cui ha dato addio”56.

 

Compagni e maestri

 

Orfano e reprobo, l’io vorrà costruirsi una nuova storia, inventarsi una nuova genealogia e scegliersi a dispetto di ogni dichiarazione degni compagni e maestri (“Sdegnando ira di gente e di fortuna”57): ecco allora l’affollarsi dei Parini e degli Alfieri, dei Tasso e degli Ariosto, dei Petrarca e soprattutto di Dante e, appresso, dei rappresentanti più suggestivi della poesia settecentesca e contemporanea, gente come Varano, Young, Gessner e Monti, ai quali si accompagnerà fin dove avrà bisogno di tutori, fino in vista della meta, là dove dovrà essere solo con la sua virile dignità e il suo carico di irrisolte contraddizioni (ideologiche e stilistiche), faccia a faccia finalmente coi “nigra somnia”, i “neri sogni” che la Luna governa (In Lunam58), i sogni di un avvenire che la realtà contraddice e mortifica.

Forse a questo punto ci sembrerà un po’ più chiara l’allegoria d’apertura, quel paesaggio brullo e disabitato eppure così fibrillante di vita nella sconfinatezza dei suoi spazi e nella prospettiva zenitale della meta.

Ci apparirà più comprensibile il lunare “barlume” di certe consapevolezze attese e temute e la statuaria sdegnosità del protagonista, che soprattutto nel Canto V, al termine del suo “apprendistato”, pronuncia la sua sfida alla morte con tutta la drammatica emotività di cui è capace: in quel paesaggio e nell’alone perlaceo di quella luna si disegna uno scenario assolutamente nuovo ed essenziale, entro cui non tarderà a fare la sua apparizione il ghigno beffardo di Arimane, di cui negli Argomenti e abbozzi di poesie leggiamo un frammento di inno59, ma anche il lampo della spada fiammeggiante e i corruschi bagliori della “corazza” di intelligenza, da “angelo ironico” e vendicatore, di cui lo vedrà rivestito e circonfuso W.Benjamin nella sua recensione ai Pensieri60.

1 G.L., Appressamento della morte, V, vv.43-45, in Tutte le opere, I, op.cit., p.317

2 G.L., Appressamento della morte, I, v.19, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.309

3 G.L., Appressamento della morte, I, v.4, in Tutte le opere, I, op.cit., p.309

4 G.L., Alla Primavera o delle favole antiche, in Canti, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.12

5 G.L., Appressamento della morte, I, v.88, in Tutte le opere, I, op.cit., p.310

6 G.L., Appressamento della morte, I, v.98, in Tutte le opere, I, op.cit., p.310

7 G.L., Appressamento della morte, I, v.8, in Tutte le opere, I, op.cit., p.309

8 G.L., La Ginestra o il fiore del deserto, in Canti, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.42

9 G.L., A Silvia, vv.5-6, in Canti, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.26

10 G.L., In Lunam, 1-6, Odae adespotae, II, in Tutte le opere, I, op.cit., p.305

11 Le Odae adespotae (rispettivamente In amorem e in Lunam) sono due odicine anacreontiche composte nel 1816, presentate in duplice versione, greca e latina, come raffinate contraffazioni, non diversamente dall’Inno a Nettuno dello stesso anno, pubblicato nel 1817 come ricalco da un perduto originale di autore anonimo, con corredo di Avvertimento e di Note.

12 G.L., Appressamento della morte, I, v.6, in Tutte le opere, I, op.cit., p.309

13 G.L., Le rimembranze. Idillio, 1816, in Tutte le opere, I, op.cit., p.307

14 G.L., Maria Antonietta, Tragedia, 1816, Argomenti e abbozzi di poesia, in Tutte le opere, I, op.cit., p.329

15 G.L., Inno a Nettuno d’incerto autore. Traduzione dal greco, 1816, Poesie varie, in Tutte le opere, I, op.cit., p.296

16 G.L., Il primo amore, v.83, Canti, in Tutte le opere, I, op.cit., p.15

17 G.L., Bruto Minore, vv.112-113, in Tutte le opere, I, op.cit., p.12

18 G.L., Bruto Minore, v.93, in Tutte le opere, I, op.cit., p.11

19 G.L., Bruto Minore, vv.101-102, in Tutte le opere, I, op.cit., p.12

20 G.L., Le Ricordanze, vv.109-118, Canti, in Tutte le opere, I, op.cit., pp.27-28

21 G.L., Le Ricordanze, Canti, v.104, in Tutte le opere, I, op.cit., pp.27-28

22 G.L., Zibaldone, 3527, 26-27 settembre 1823, in Tutte le opere, II, op.cit., p.880

23 G.L., Appressamento della morte, V, vv.43-45, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.317

24 G.L., Appressamento della morte, V, vv.79-81; 88-90, in Tutte le opere, I, op.cit.,pp.317-318

25 G.L., Zibaldone, 143-144, 2 luglio 1820, in Tutte le opere, II, op.cit, pp.71-72

26 G.L., A Pietro Giordani, 30 aprile 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1026

27 G.L., Zibaldone, 82, in Tutte le opere, II, op.cit, p.49

28 G.L., A Pietro Giordani, 30 aprile 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1025

29 G.L., A Pietro Giordani, 30 aprile 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, pp.1026-1027

30 G.L., Zibaldone, 40, in Tutte le opere, II, op.cit, p.27

31 G.L., Zibaldone, 39-40, in Tutte le opere, II, op.cit, p.27

32 G.L., A Pietro Giordani, 30 aprile 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, pp.1024-1027

33 G.L., A Pietro Giordani, Recanati, 30 marzo 1820, in Tutte le opere, I, op.cit, pp.1096-1097

34 G.L., A Pietro Giordani, 30 aprile 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1026

35 G.L., Zibaldone, 2041-2043, 3 novembre 1821, in Tutte le opere, II, op.cit, pp.545-546

36 G.L., Zibaldone, 1323, 14 luglio 1821, in Tutte le opere, II, op.cit, p.385

37 G.L., A Pietro Giordani, 21 marzo 1817, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1019

38 W.Binni, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.XXVI

39 W.Binni, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, in Tutte le opere, con introduzione e cura di W.Binni e E.Ghidetti, I, Sansoni Editore, Firenze 1969, p.XXVIII

40 G.L., Zibaldone, 2041-2043, 3 novembre 1821, in Tutte le opere, II, op.cit, p.545

41 G.L., Zibaldone, 3291, 28 agosto 1823, in Tutte le opere, II, op.cit, p.823

42 Una “visione” allegorica, la cantica Appressamento della morte, nel solco di una nobile tradizione poetica, che va da Dante, al Petrarca dei Trionfi, fino al Monti della Basvilliana.

43 G.De Robertis, Saggio su Leopardi, Vallecchi, Firenze 1944, p.22

44 G.L., A Carlo Lebreton, Napoli, fine giugno 1836, in Tutte le opere, I, op.cit, p.1413

45 Zibaldone, 29 agosto 1828, 4357, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1175

46 G.L., Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca italiana, Recanati, 18 luglio 1816, in Tutte le opere, I, op.cit, pp.880-882

47 G.L., Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Tutte le opere, I, op.cit, p.932

48 G.L., Zibaldone, 1° febbraio 1829, 4450, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1208

49 G.L., Zibaldone, 1° febbraio 1829, 4450, in Tutte le opere, II, op.cit, p.1208

50 G.L., Zibaldone, 4372-4373, 10 settembre 1828, in Tutte le opere, II, op.cit, pp.1180-1181

51 G.L., Appressamento della morte, V, vv.28-30, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.317

52 G.L., Appressamento della morte, I, v.30, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.309

53 G.L., Zibaldone, 105, in Tutte le opere, II, op.cit.,p.58

54 G.L., Appressamento della morte, I, v.29, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.309

55 G.L., Zibaldone, 523, 18 gennaio 1821, in Tutte le opere, II, op.cit., p.177

56 R.Damiani, Vita di Leopardi, Mondadori, Milano 1993, pp.100-101

57 G.L., Appressamento della morte, I, v.19, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.309

58 G.L., In Lunam, 1-6, Odae adespotae, II, in Tutte le opere, I, op.cit., p.305

59 G.L., Ad Arimane, Argomenti e abbozzi di poesie, in Tutte le opere, I, op.cit.,p.350

 

60 W.Benjamin, recensione all’edizione tedesca dei Pensieri, in Critiche e recensioni, Einaudi, Torino 1979, p.68