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Lunedì 13 maggio : Vincenzo Guarracino presenta: " Terra sotto vuoto" di Gilberto Isella
Gilberto Isella
Terre sotto vuoto
Edizioni Marietti 2024
di Vincenzo Guarracino
Il dire di Gilberto Isella ti mette subito nel vivo di un ductus mai scialbo e banale, di una fosforica inconcinnitas fatta di brevitas e di color, di lancinante essenzialità e di spiazzante straniamento a livello lessicale e concettuale, che ti danno il senso di un pensiero che insegue se stesso e ti invita a
non fermarti, a non appagarti di quello che ti sembra di aver capito, mettendoti continuamente di fronte a prospettive sempre nuove, a «irrefrenabili e angosciose metamorfosi», in cui entrano in
gioco in feconda e accelerata contaminazione - interazione sensi altri e diversi, come dice e lascia intendere appunto Aman e come è comprovabile dall’abitudine del poeta di accompagnarsi con frequenza ad artisti (di volta in volta, Bruno Bordoli, Loredana Müller, Giulia Napoleone, Marco Mucha, tra i tanti e più recenti).
Un esempio, subito all’inizio delle otto “stanze” di cui si compone e struttura quest’ultima raccolta poetica Terre sotto vuoto:
«Vapore emana dalle cime / scende calmo nel polmone della valle / un arco di realtà sospira // spazio libero da forre / violoncello dai liquidi confini / quattro corde / serpeggianti con il fiume // melodia di cavità nascoste / rizomi che irrompono / tra notti e mattini / (palinsesti divini?)».
Al di là di almeno due segnali (“rizomi” e “palinsesti divini”) che evocano precisi referenti culturali – il primo, Deleuze e Guattari di una memorabile riflessione, Rizoma appunto (1976), sull’infinita e
perversa «disseminazione» di desideri ed enunciati dell’inconscio per «misurare e cartografare regioni future»; il secondo, “palinsesti divini”, un celebre testo di Baudelaire, Correspondances, evocato pur con dubitoso scetticismo con ciò che comporta ancora dal punto di vista
sinestetico –, colpisce l’evocazione di un paesaggio alla cui definizione concorrono percezioni
sensoriali diverse, auspicabilmente apportatrici di intraviste epifanie. Come di fronte a un diamante
dalle infinite rifrazioni, l’occhio è sorpreso da “barlumi” e lucori d’“ambra”, da “melodie” appena
percettibili ed echi di “violoncelli” che indirizzano l’andare ad una “stella”, ad una “luce”, che non trova definizione nei suoi contorni enigmatici se non come scrittura, Enigmi e corrispondenze.
Il canto dei libri “parola che manca”. È l’invito insomma a perseguire quello che Hegel definisce «il mistero eleusino» dell’Indicibile, a ricercare «anche nel marcio e nell’inanimato» i resti di un sapere antico e intramontabile, sollecitando «la povertà delle parole» il sacro che con «polvere e la cenere» della loro veste dimessa ancora a stento dissimulano (cfr. G.W.F. Hegel, Eleusis).
È questo che si applica allo scrivere di Gilberto?
Io credo proprio di sì, stando a quel che dice nella pagina prosastica conclusiva del libro, Terra, poesia…, dove esplicitamente parla di «registro poroso
dell’enigma», riconoscendo alla natura della sua “avventura” di linguaggio il suo cosciente carattere di esplorazione del visibile e dell’esistente, guidato dalla “stella” della parola, come via al Sublime, inteso come rappresentazione in cui alto e basso collidono e “vita” e “morte” si ritrovano accostati nell’involucro infeltrito della macelleria della Storia, senza possibilità di riscatto e risurrezione.
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