L'Informatore di Mendrisio, venerdì 4febbraio 2022
Gianni Paris e le ombre sulla pagina dipinta.
Luca Pietro Nicoletti
Gianni Paris (1948-2018) è stato artista appartato e solitario, e come tale ha condotto per tutta la vita una ricerca autonoma, irrelata, difficile da collocare entro un tessuto connettivo di esperienze coeve e parallele. Al contrario, la sua proposta figurativa va vista e valutata secondo coordinate proprie, seguendo le indicazioni del suo itinerario interno, eccentrico e isolato. La sua stessa biografia, infatti, offre pochi appigli al racconto: frequenta l’Accademia di belle arti di Brera fra il 1974 e il 1978, quando le condizioni economiche gli consentirono di affrontare gli studi; vive poi a Mendrisio fino al 1988, quando si trasferisce a Melano e qui trascorre i successivi trent’anni, coltivando alcune amicizie, come quella con l’editore Josef Weiss. Dipinge molto ed espone pochissimo, anzi raramente: la pittura era il suo lavoro, ma non una pratica volta a un sostentamento materiale. Per questo, la riflessione critica che lo riguarda si riduce ad alcune selezionatissime occasioni negli anni Novanta e Duemila: un testo di Walter Schönenberger nell’ottobre del 1993, alcune righe di Luigi Cavadini in occasione della mostra a due con lo scultore Rolf Brem per gli “Amici degli Artisti” presso Villa Foresta a Mendrisio nel maggio 1996; una breve e pungente pagina di Maria Will nel 2016 per la personale presso Areapangeart di Camorino; infine un testo del 2019 di Rosa Pierno per un’esposizione postuma sempre a Camorino, centrata sull’amicizia fra il pittore di Melano e Weiss.
Quella di Paris è dunque una ricerca che si avviluppa su se stessa, espressione di un carattere cupo e introverso, che approfondisce i propri temi in un continuo scandaglio interiore, muovendosi concentricamente intorno a un numero limitato di temi secondo un ossessivo processo di variazioni.
Lo aveva chiarito Schönenberger nel 1993: «L’artista rifiuta il dialogo e a ogni tentativo di discorso ripete inesorabilmente nome, cognome e numero di matricola, come una litania. L’atteggiamento che vuol essere di modestia, privo di concessione alla vanità delle parole, delle definizioni critiche, diventa così uno show di attore. L’estrema modestia diventa estremo orgoglio. Paris sa di essere un buon pittore. Sa che il suo carattere spigoloso non facilita il discorso con gli altri. Dipinge come un monaco medita ed è questo che conferisce densità a quello che fa».
Tutto questo era secondo Schönenberger coerente con i caratteri originari del pittore che, stando al racconto del critico, quando diede l’esame in Accademia, a Brera, presentò un libro fatto di sole pagine bianche: «Si era in piena contestazione e venne accettato. Paris oggi è l’erede convinto di quella stagione turbolenta, sotto certi lati, nonostante il suo attuale aspetto monacale, è rimasto un ragazzo che contesta perché l’andazzo delle cose del mondo lo indigna». In un caso come nell’altro, insomma, l’artista aveva fatto una scelta di alterità, di presa di distanza, di dissidenza silenziosa, espressa a suo tempo nelle forme dell’operazione concettuale, in seguito attraverso i più tradizionali strumenti della pittura. Eppure di quell’approccio concettuale avrebbe conservato qualcosa.
Non è banale, prima di tutto, il fatto che quel primo intervento fosse avvenuto scegliendo un libro, forma che sarà poi congeniale a tutto il suo lavoro successivo, e dandogli la forma di un assoluto e nitidissimo silenzio. Di libri dipinti, poi, nella sua vita ce ne sarebbero stati molti, e proprio nel ricorso a quella forma di presentazione del lavoro pittorico, sia su tela sia in veri e propri libri d’artista, si anniderà un elemento spiazzante, o almeno disorientante, del suo lavoro.
Dei primi anni, purtroppo, si conserva molto poco, perché un incendio distrusse buona parte di quello che aveva dipinto e soprattutto disegnato durante il suo periodo di formazione. Dalle tracce superstiti, tuttavia, emerge il profilo di un artista visionario, dedito all’alterazione espressiva dell’anatomia umana: tre figure disegnate a puro contorno, senza staccare la matita dal foglio, sono le Parche della mitologia, tenute insieme dal filo che tessono fra di loro; oppure scene che paiono estratte da sonni inquieti di visionari, umani e burattini in primo piano su uno sfondo con un paesaggio raffigurato su quinte teatrali. Sono prove di avvio, ma da cui si capisce qualcosa della temperatura notturna della sua ricerca estetica, e della sua discendenza da una stirpe nordica di pittori inclini al grottesco, magistrali nell’insistere sulle deformazioni e la caricatura. La figura, poi, sparirà, ma non l’inquietudine che pervade i paesaggi nati dalla giustapposizione di macchie: sono le montagne che vede tutti i giorni fuori dalle finestre della sua abitazione, ma se ne accorge solo una volta che ha concluso il dipinto. Sembrerebbe, come fece notare Luigi Cavadini, che Paris voglia sottrarsi alla figurazione, o meglio negarsi a questa possibilità, e che in questo fumoso movimento di macchie si debba vedere solamente una stratificazione di materia o di velature. «Eppure», osservava il critico, «un’attenta considerazione permette di ritrovarne la memoria tra i colori, tra le pennellate razionalmente scomposte, in una sorta di lungo viaggio dentro l’inconscio che porta a superare i vincoli della rappresentazione classica per una narrazione fatta di segni, di annunci, di visioni. Paesaggio e figura sembrano compenetrarsi, ma è il paesaggio ad emergere, pur nella trasfigurazione che lo caratterizza». La figura, insomma, non si dichiara immediatamente, ma si lascia svelare un po’ alla volta. Paris, infatti, lavora per stratificazione, e ad ogni passaggio chiarisce con il pennello il volume di una forma o il profilo di un paesaggio. È una dimensione mentale, per cui è la mano a guidare il colore sul supporto con un movimento morbido e lento, e a lasciare che la conformazione delle macchie, le gore del colore diluito o le increspature di quello dato a corpo suggeriscano il successivo sviluppo. Per questo motivo sarebbe impervio cercare di riconoscere profili o scorci di vere montagne: è una memoria della conformazione delle rocce che si mostra davanti all’osservatore, anzi che prende forma entro una nube di vapori. Cercando di leggere il processo esecutivo, specie nei dipinti di dimensioni maggiori, Paris marca un profilo scuro, che delimita il confine di una campitura bruna campita a piccoli tocchi incrociati, in modo da ottenere una superficie uniforme ma effusiva, che guadagna compattezza proprio grazie all’accostamento di piccoli tocchi con la loro vibrazione interna. In prima battuta, dunque, l’artista stabilisce un contrasto di fondo, che andrà poi ad accentuare rimarcando quel profilo con una pittura chiara e di tono caldo, che andrà poi a evidenziare con l’aggiunta di colore a corpo. Ma è una situazione ancora incerta, perché quel fondo scuro può essere la linea dell’orizzonte o la sommità di un monte, e sta ai successivi interventi chiarire l’assetto spaziale: se quell’incendio di luce densa e vaporosa si collochi dietro una vetta, che quindi giganteggerebbe in primo piano come un massiccio inespugnabile, o una landa deserta e oscura, su cui poi l’artista interviene ancora inserendo un elemento visivo, o meglio un gruppo di pennellate che, lette insieme, va a costituire una forma elementare, di natura organica, come contrappunto compositivo. A questo punto, la superficie dei suoi dipinti, o ancor più di certe minuscole carte si increspa per uno sfrego di colore, poche pennellate di tono chiaro contrapposte ad altre di tinta scura che delineano una figura, o almeno una presenza, qualcosa che trasformi il paesaggio nel piano inclinato di una natura morta ambientata all’aperto, secondo una lezione tramandata da Filippo De Pisis, che Paris poteva aver ben presente visti i suoi trascorsi braidensi. Non escluderei infatti che questi possa essere stato un referente: non stona con le memorie romaniche e barocche ricordate da Dalmazio Ambrosioni (menzionato da Cavadini), e ancor meno con la costellazione di nomi proposti da Maria Willa. «Bella di una pittura palpitante, sentimentalmente seducente eppure enigmatica e inafferrabile», scriveva di lui nel 2016, «la pittura di Gianni Paris è anzitutto pittura che si nutre di pittura. Le sue stesure, la sua maniera, che hanno sontuosità antiche ma pure scabra essenzialità di segno, non potrebbero essere tali se non ci fosse la comprensione profonda, se non ci fosse l’amore più devoto per i tanti che hanno aperto vie, indicato possibili varchi di senso nel fondale illusorio del visibile; illusorio sì, ma caro e prezioso oltre ogni dire». Per queste ragioni poteva stare sotto la stella di Giorgio Morandi, ma da tenere insieme all’eleganza di Julius Bissier e alla ferina istintualità di Franco Francese, altro pittore italiano molto amato da certo collezionismo ticinese. In questi tre nomi si possono leggere infatti le coordinate di una interpretazione. Morandi è il nume tutelare della pittura tonale, quasi monocroma, rispetto alla quale tuttavia Paris lavora o con molto corpo di pigmento, o con un colore talmente snervato e diluito da sembrare un inchiostro ed essere usato come un acquerello. Non di rado, anzi, certe sue piccole carte monocrome e seppiate sembrano avere la granitura di un’acquatinta, e solo con un’osservazione attenta si riesce a cogliere la stesura tenue ma opaca dell’olio diluito, così soffice e ombroso, con una tavolozza in effetti affine a quella di Bissier, alle sue nature morte tradotte in macchie, in contorni accostati e fluttuanti. Si potrebbe scomodare, a questo punto, il nume di Francisco Goya, specie della sua stagione tarda delle pitture nere, dei sabba notturni e di altre stregonerie che prendono vita con il favore delle tenebre. Il ricordo di Francese, forse, sta a indicare questa dimensione: figure che emergono dall’ombra e sbalzano in primo piano, e che paiono pronte ad essere nuovamente inghiottite dall’oscurità.
Non di rado, infatti, specie nelle carte più piccole, condotte nel formato maneggevole di una cartolina (come cartoline, racconta sua moglie, che l’artista inviava a se stesso dai propri viaggi interiori) quelle conformazioni che a prima vista paiono rocciose si chiariscono progressivamente: i volumi si arrotondano e prendono un’altra direzione, fino ad assumere posture antropomorfe. Non arrivano mai a definirsi alla luce del sole, rimanendo numi o fantasmi nella penombra. Basta acquerellare con un po’ più di attenzione certe ombre perché i volumi risaltino nella loro compattezza semplificata, delineate su fondi scuri che promettono di riassorbirle.
Eppure questo scandaglio nel proprio inconscio, questo lasciarsi condurre dalle macchie sul foglio, come suggeriva un famoso precetto di Leonardo tanto caro ai pittori informali, non impediva all’artista di inserire nelle sue opere un indizio di rigore che, di opera in opera, va a ricongiungersi con il remoto polo concettuale da cui era partita questa riflessione.
Anche nelle prove di pittura più libera, infatti, Paris sente l’esigenza di riquadrare le proprie opere, di lasciare un bordo bianco come spazio di riposo e di impaginazione. Quello spazio serve a delimitare il campo, come a voler mettere in evidenza il dispositivo di finzione che sta a monte della ricerca: quel paesaggio tratteggiato ad ampie pennellate, in fondo, è un brano di pittura depositato su una tela o su una carta, e come tale si qualifica nel momento in cui uno spazio bianco lo circonda, specie se trattato non come una finestra dalla cui cornice ci si possa affacciare su un mondo esterno, ma come lo spazio lasciato libero da una macchia di colore che potrebbe espandersi: alcuni fogli lasciano pensare che quell’immagine si stia materializzando come una vera e propria apparizione onirica e, come in tutti i sogni, non può avere margini chiusi e troppo definiti.
Presto, però, ci si rende conto che per Paris quello spazio bianco, o neutro, indica in realtà una vera e propria “pagina”, e che il suo lavoro trova espressione compiuta nella forma del libro. Non di rado, infatti, l’artista ha montato i suoi piccoli fogli su pagine più grandi, rilegate fra loro come un vero e proprio volume. Non c’è una storia che si dipana dall’una all’altra, ma nemmeno una sequenza casuale e priva di senso: c’è un nesso sottile, un significato nascosto che passa di pagina in pagina e le tiene unite come frammenti di una metamorfosi oscura. Ecco allora che le immagini si dispongono in serie, le serie diventano libri (alcuni realizzati o rilegati da Weiss) pronti alla “lettura”. Libri cifrati, dunque, dove non c’è sequenza narrativa, al massimo l’evoluzione di un motivo per via di variazione: messi assieme, fanno come un vero e proprio film.
Ma questa esperienza di contatto con il libro era pronta a tornare anche sulla tela, o su fogli autonomi dipinti a olio come tavole estratte da un erbario, o da un album di paesaggi. L’immagine vera e propria è diventata un frammento di una costruzione più ampia: una “pittura in pagina”, come titolava la mostra del 2016, o, meglio ancora, una pagina dipinta, che unisce più registri linguistici come un discorso a tesi sui limiti della rappresentazione bidimensionale. Dopo alcune pagine dai bordi frastagliati dipinte, infatti, Paris ha cominciato a dipingere su tela le stesse pagine, portando nel dipinto tre livelli: il fondo della tela, come una lavagna su cui è fissato un doppio foglio di carta aperto, talvolta coi bordi irregolari, su cui ha poi collocato un’immagine (uno dei suoi tipici paesaggi) e dei brani che simulano una scrittura manoscritta resa illeggibile, che sta a indicare soltanto se stessa, senza preoccuparsi di veicolare un contenuto verbale.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se non si tratti di un esercizio verbo visivo, e credo verosimile che Paris avesse in mente quelle esperienze di dialogo fra scrittura e immagine. Ma traducendo tutto questo in pittura, adottando una commistione di stili (illustrativo e grafico per la finta pagina, espressionista per i dettagli pittorici) non ha solo ripensato il tema del quadro nel quadro, ma anche quello tautologico degli strumenti stessi del disegnare, dello scrivere e del dipingere. Ed è così, forse, che quelle pagine bianche presentate a Brera all’inizio della sua carriera si sono riempite di contenuto, divenendo i fogli sparsi di un possibile diario personale: ma anche una volta dipinte, le pagine restano pagine, e i libri rimangono libri.