Marino Cattaneo Condotta forzata
Per leggere con profitto il testo poetico di Marino Cattaneo, Condotta forzata, occorre forse possedere qualche rudimento di ingegneria idraulica, saper armeggiare un po’ con condotte, tubature e accessori vari, conoscere i percorsi impervi e sotterranei dei canali, il fremito delle gallerie, provarsi con i duri metalli, riflettere sulla potenza dell’acqua. Marino ha studiato architettura, e i segreti della geologia e scienze affini non gli sono estranei. Il suo poemetto s’ispira per giunta a fatti reali, e cioè all’effettiva posatura di una condotta in un punto preciso della nostra regione geografica. Ma sarà lui stesso a darcene ragguagli.
Il mio compito è invece quello di affrontare il testo in quanto testo, nella sua autosufficienza linguistica. Pur mirando a un oggetto concreto (il referente del titolo) Condotta forzata vive infatti di vita propria. Crea metafore e associazioni a getto continuo - non per caso ha forma di conduttura - proiettandoci in esperienze e realtà di ordine diverso, ma sempre inerenti al movimento e al fluire. Non c’è nulla, nel componimento, di realistico o descrittivo. La sua forza sta piuttosto nell’evocazione di un’altra scena, di un altrove certamente non statico, e che chiama in causa, ovviamente, anche la nostra esistenza. Mentre il suo movente filosofico ci riporta, inutile sottolinearlo, al panta rhei, al “tutto scorre” teorizzato dal filosofo greco Eraclito.
Due considerazioni elementari. Coloro che hanno letto o semplicemente visto il testo di Marino, affilatissimo, serpentino e con scarse cesure interne, si saranno stupiti davanti a questo insolito flusso ‘forzato’ entro una tubatura poematica. È appunto la dimensione formale a colpire di primo acchito il lettore. Fin da da quel blocco verbale d’apertura che ricorda, oltre che una condotta vera e propria, lo schema di un oggetto contundente, un liquido armato di tutto punto. Questa è poesia spiccatamente visiva, dove il tema della coercizione si riverbera nella strettezza dei versi, che raramente superano le sette sillabe. Nel costrutto riconosceremo insomma la mimesi plastica di un’idea. Da questo profilo, niente di nuovo sotto il sole. Testi del genere proseguono e confermano una tradizione che, radicata in età lontanissime e giunta a significativi traguardi durante l’età medievale (vedi Rabano Mauro) e in certi ditirambi dell’era barocca, nel Novecento si mette in sintonia con l’estetica delle Avanguardie storiche. La forma è quella del calligramma, un componimento i cui versi sono disposti in modo tale da imitare profili o sagome d’oggetti pertinenti al discorso. Pensiamo alle esperienze di Apollinaire (Calligrammes) e in generale al futurismo di Marinetti e soci. Futuristico è ad esempio il predominio della dynamis - forza e velocità - che subordina a sé contenuti e dispositivi concettuali. Icastica e al contempo sonora è l’entrata in scena dell’interminabile condotta, con i “giù giù” che nel loro precipitarsi al fondo, verso l’abisso, non concedono respiro e amplificano, tramite un singolare dispendio della vocale /U/, l’ipotizzabile scroscio legato allo scorrimento dell’acqua, evocando inoltre l’ansia, la paura. Ma futuristico, sul piano della grammatica, è anche il forte contenimento dei legami verbali. Voglio dire quella riduzione sintattica che permette all’energia-velocità di scatenarsi senza impedimenti. Così come agli oggetti evocati di presentarsi in maniera simultanea: “nubi nubi nubi albe albere ramaglie scaglie rami le più minime lune”. Anche per mezzo di allineamenti nominali ossessivi: “l’irto il salvatico lo storto lo Scrigno”, ecc.
V’è da precisare che la simultaneità non sembra coinvolgere soltanto lo spazio ma anche il tempo, come indica con sottigliezza l’autore: “la geometrale del tempo il corso dello spazio”. Spaziotempo riversato su un fantasmagorico mappale, in cui si intravede in blocco, oltre il fluire, l’ansia e la fatica sopportate dagli esseri umani. Sono le maestranze chiamate a costruire l’opera, a sfidare le mille resistenze della natura: “livori croste radici tracimazioni”. Tutto ciò ha un solo nome: violenza. Tra le località citate rileviamo Carena, che per associazione fonica si ribalta in Verona, l’arena di Verona pronta ad accogliere non belve e gladiatori bensì “tritume d’operai”. Da siffatte tribolazioni uscirà il magnum opus, quella condotta che un’azzeccata metafora trasforma in “proboscide della montagna”.
La seconda considerazione riguarda la valenza semantica del titolo. A un’attenta lettura risulta che il termine “condotta” può essere oggetto di due interpretazioni diverse. Abbiamo il significato letterale e concreto di “condotta d’acqua” e quello un po’ più astratto di comportamento umano, come quando parliamo di “condotta di vita”, “buona o cattiva condotta” o “linea di condotta” per designare una strategia scelta in vista di un’azione. La linea separatoria tra le due accezioni del termine è molto fragile, complice il vocabolo che ci rimanda a un’unica etimologia: cum-ducere, condurre. Lo scorrimento o conduzione coatta, dunque, riguarda tanto l’elemento idrico quanto un lavoro umano assai poco gratificante. In un ipotizzabile inghiottitoio spaziotemporale è l’uomo a scivolare in basso assieme alle sue acque. Ma nessun elemento organico o inorganico viene risparmiato da tale gigantesco risucchio: “sì tutto/ anche il nulla/ refolo d’ombra/ o soffio/ quel fruscio anche”. La catàbasi prende un’allure che oserei chiamare cosmica.
C’è poi anche questo da osservare: l’atto sovrano del forzare viene attribuito a una sorta di soggetto impersonale, designato “rettilineo padrone”, e subito dopo con una variante più marcata, “rettifilo padrone di tutto”. Si tratta dunque di una questione di dominio indipendente dal soggetto progettante. Qualcosa agisce, in uno stato di fosca neutralità. Avremmo a che fare con quella ‘volontà di potenza’ della tecnica, sintomatica della modernità avanzata, su cui Heidegger ha scritto pagine memorabili. Ma quale meta si prefigge tutto questo agitarsi? Una “sublime natura”, come con amara ironia scrive Marino? Sta di fatto che tale artificiosa sublimità, preparata da un indescrivibile lavorìo di numeri e calcoli, promossa da una maniacale performance di sofisticati congegni, potrà apparire solo nei segni di un inesorabile disfacimento, a un solo passo dal caos. E ciò a dispetto del forzoso “assottigliarsi” e livellarsi degli elementi in “un’unica drittura”. Come dire: il razionale progetto si scontra ormai con le leggi dell’entropia e con lo spettro della disseminazione. Sembra, sul finire del componimento, che la duttilissima mano d’opera, i suoi prodotti e i cervelli innominabili che rendono ogni cosa diritta e uniforme soccombano a una sorta di nirvana negativo, ormai posto sotto la regia delle ombre. Sta di fatto che un simile nirvana della fatica e dello sfarsi, registrato con sadomasochistica puntualità dal testo, finisce con l’avvolgere il testo medesimo. Esausto, da tanto accumulo. Ancora in grado, tuttavia, di percepire un’ultima ombra in risalita, alle soglie della cancellazione.