Geologia del Tempio. Scultura tra inchiostro e pittura

In primo luogo ringrazio le artiste per la loro fiducia; Anne-France Aguet e Petra Weiss. Entrambe già presenti in areapangeart, fino alle prime pagine. Con Anne-France Aguet nel settembre del 2015 abbiamo iniziato l'avventura di questo piccolo centro culturale. E da allora sono nove gli anni, sono tante le esposizioni ben 28 e sempre unite da incontri di approfondimento. Sia con Anne-France che con Petra Weiss almeno tre esposizioni oltre le due  in omaggi agli amici e maestri, dove si era fino a nove artisti. Per Massimo Cavalli e Enrico Della Torre ; oltre ai blu di Giulia Napoleone che ancora ci accompagna. Abbiamo avuto dialoghi, dove stretto era il rapporto tra le sculture e la pittura o ancora l'incisione in prima e terza istanza con Anne-France. 

 

Oggi inauguriamo un nuovo periodo e una nuova linea dove in areapangeart si genereranno esposizioni sempre a tre con tre incontri sull'arco di tre mesi. Tre saranno sempre anche i dialoghi trasversali, con la critica d'arte e la poesia e con la musica ed il cinema.

 

Debbo ringraziare Vincenzo Guarracino che appena ha sentito il tema titolo

" Geologia del tempio" subito ha generato unitamente alla visione delle opere; il testo che leggete in sala; e ringrazio Claudio Farinone, sono suoi i suoni appositamente nati per i marmi di Anne France, le percussioni, per le sculture di legno e ceramica di Petra Weiss, la chitarra elettrica. La chitarra classica per i miei  raccordi con Aguet l'inchiostro di fuliggine, carbone e gomma arabica e le due tele in variazioni d'acqua e fuoco in dialogo con Petra Weiss.

 

Debbo ringraziare dietro le quinte, Lorena e Athos Macocchi che mi hanno davvero aiutato per il trasporto delle opere, e offrono il vino. E Daria e Tarcisio che in un secondo momento staranno e sono sempre stati, a servire il buffet al piano terra.

 

E ora con gioia, una voce nuova per ariapangeart è Cecilia Liveriero Lavelli, studiosa nel campo dell'arte, del cinema, laureata in storia dell'arte con un cipiglio tra fenomenologia degli stili e arte contemporanea.

 

Sin dall'invito mi ha aiutato, con delicata condivisione, e ora, ora non vedo l'ora di dargli parola...e nutrirmi, della sua visione.

 

 

Grazie Lore

Geologia del Tempio. Scultura tra inchiostro e pittura

 

Anne-France Aguet, Loredana Müller-Donadini, Petra Weiss

 

Areapengeart 22.01-26.03.2024

 

Presentazione di Cecilia Liveriero Lavelli

 

Di fronte al lavoro di queste tre persone, donne, artiste mi sento onorata, anche un po’ in soggezione per tanta stratificazione e profondità.

 

Quando ho visitato questo spazio, la settimana scorsa, mi sono posta mille-mila domande: Cosa vedo? Cosa c’è? Perché queste artiste, queste opere, questi elementi, questa disposizione, questi materiali, queste forme, queste cromie, questi pieni e questi vuoti?

Ma soprattutto: Quello che vedo come si lega a quello che non vedo?

Ovviamente non ho risposte, e quelle che trovo le custodisco nei miei abissi interiori, ma posso condividere questo: 12 anni fa, quando sono stata coinvolta per la prima volta nella presentazione di una mostra in cui esponeva Loredana Müller (con MichelaTorricelli a Riva San Vitale), mi avevano colpito alcuni aspetti che ritrovo sempre e sempre laddove mi imbatto nel suo spirito guida:

- la spinta ad “andare oltre”,

- il coraggio di unire quello che altrimenti si trova disgiunto,

- e la determinazione, non so se consapevole o innata,

- di unire esaltando le differenze,

- di valorizzarsi reciprocamente aldilà di eventuali similitudini formali o stilistiche tra le opere di chi espone, che a questo punto diventano inconsistenti.

Anche questo mi aveva colpito: la scelta di esporre insieme opere bidimensionali e tridimensionali, di formati e materiali molto diversi, che avevo trovato coraggiosa e per nulla scontata.

E oggi posso aggiungere che è l’approccio alla vita ad accomunare chi espone insieme qui. Un approccio sensoriale fortissimo, capace di ibridazioni tra molti linguaggi e molti materiali: non basta guardare le opere, bisogna proprio sentirle.

Noi non possiamo vedere tutto quello che c’è sotto la superficie. Lo possiamo intuire, percepire, cogliere con tutti i nostri sensi e con la curiosità di chi avverte chiaramente una forza pur senza identificarne con chiarezza l’origine. Non potremmo nemmeno immaginare la durata del processo di ognuno di questi lavori, ma lo possiamo sentire, se cerchiamo di cogliere l’insieme di tutti quei dettagli che danno senso a ogni opera.

 

A me oggi è affidata la dimensione della parola, come possibile trait-d’union tra quello che vediamo e quello che non vediamo, tra il visibile e l’invisibile.

Per me parole sono importanti, non solo quelle pronunciate, ma anche quelle della mente, quelle con cui costruiamo il nostro mondo interiore e con cui leggiamo quello avviene intorno a noi.

Per me le parole sono tutto quello che ho a disposizione come strumento che mi permette di entrare in contatto con quello che sento e che sperimento, che lo completano, lo assorbono, lo trasformano, me lo rendono caro, mio.

Quindi io non posso che parlare di qualcosa che altre persone hanno creato partendo dalla loro esperienza del mondo, nel mondo, quello delle percezioni, delle emozioni, del mistero che attraversa e permea (il tempio), e della stratificazione dei loro significati (la geologia).

Geo-logia, di nuovo c’è la “parola”, lì, dentro quell’immaginario sedimentato da scavare.

 

E provo ad attraversare parte di questo spazio condividendo con voi alcune parole su quello che ho provato, sentito, avvertito. Prendetele così, come alcune delle innumerevoli onde che si infrangono da qualche parte e che magari portano con sé qualche pietruzza che qualcuno chissà, forse raccoglie.

 

Geologia del tempo, tela di Loredana Müller-Donadini

Utilizzare il pennino, anzi, pennini di spessore diverso, per sfidare la texture della tela, senza assecondare l’andamento della trama e dell’ordito, ma per creare una resistenza rispetto alla superficie, svirgolettando piccole diagonali e moltiplicandole all’infinto con paziente meticolosità, ripetendo quella linea obliqua, quasi impercettibile nella sua minuzia, infinite volte. E questa mia ripetizione del concetto di diagonale, nel rimarcarla, non è una svista. La diagonale è quella terza dimensione che può essere usata per dare l’illusione della tridimensionalità, che può portare alla creazione di una profondità che riconosciamo nelle forme dell’arte rinascimentale e moderna. Ma qui non ci torna utile rispetto alla costruzione di uno spazio visibile, bensì proprio per la sua capacità di evocare uno spazio invisibile, sotteso alla pelle delle cose, che ci allontana da questa tela che ricade morbida davanti a noi, proprio perché è capace di portarci in altri mondi. E questi segni minuscoli che – molto democraticamente privi di un centro – occupano tutta la superficie disponibile rimandano a quel meraviglioso approccio trasversale che caratterizza anche la pittura orientale, approccio che, per dirla con le parole che la mia amica e collega Monica Dematté attribuisce alla “pittura tradizionale cinese d’inchiostro su carta, è 'interdisciplinare', nutrita e collegata com'era alla calligrafia, alla poesia, alla musica, alla letteratura e alla conoscenza approfondita della natura”.

Il fatto che la diagonale apra alla terza dimensione – che nel caso di questa mostra è la dimensione dell’invisibile ma non impalpabile – ci consente anche di soffermarci sul numero tre che attraversa questa mostra. Tre donne-artiste, tre artiste, tre donne (titolo, peraltro, di un bel libro di Robert Musil), tre. Semplicemente tre, il numero perfetto, un numero importante, stabile e instabile allo stesso tempo, ma soprattutto un numero che ci allontana dalla polarizzazione del due, così in voga in questi tempi, dove si è per o contro, di qua o di là, amici o nemici, senza soluzione di continuità, quasi fossimo stati tutti ingoiati dalla logica binaria che regge l’informatica e il mondo che ne è derivato.

Non è che le cose o si contrastano o si assomigliano. Possiamo finalmente uscire dalla dicotomia, esaltare le differenze, le sfumature, l’asimmetria che diventa vita, tensione. Il tre consente un dialogo, muove, trova intrecci, trova legami, smussa gli angoli, collega forme sinuose, tonde ed eleganti, allo slancio verticale che mette in relazione terra e cielo, radice e chioma, basso e alto. Il tre ci riporta agli elementi essenziali teorizzati da Vasilij Kandinskij: punto, linea e superficie.

Il tre è l’elemento assonante e dissonante che può creare un equilibrio, un accordo, un’armonia. Perché anche la dimensione sonora ne è compenetrata e ci attraversa, ci accompagna, ci fa vibrare. Come la musica di Claudio Farinone, il testo di Vincenzo Guarracino o queste mie riflessioni. E siamo in sei. Di nuovo due volte tre…

 

È vibrazione quella che si sente in questo spazio. Una vibrazione per niente scontata, che ci parla della sostanza di cui sono fatti i sogni e, con i sogni, delle visioni che attraversano la produzione artistica di Anne-France Aguet, Petra Weiss e Loredana Müller. Perché queste tre artiste? Io non credo nelle coincidenze, nel caso.

Nella materia impalpabile di cui siamo fatti si creano delle condensazioni, dei grovigli di energia, in cui ci sembra di inciampare e che semplicemente si manifestano perché sono.

E la diversità di materiali, esperienze, relazioni cromatiche e spaziali, supporti, manifestata da queste tre artiste non ci impedisce di sottolineare ancora una volta che cosa le accomuna, oltre al rispetto e alla stima che le lega: “Quell'aspetto così misterioso, sovrannaturale, che è requisito fondamentale della manifestazione artistica, fondato su pratiche coltivate con costanza e disciplina (…) Un viaggio [in segni e simboli, ndr] che sono poi le particelle di cui è fatto il mondo agli occhi di un [artista]. Un sentire antico eppure del tutto calato nella sensibilità attuale, che in più rivendica l'importanza fondante del rapporto con la natura, così trascurato” (Monica Dematté) oggi.

Quella natura cui attinge Anne-France Auguet levigando il marmo, di cui qui vediamo quasi la quintessenza della purezza, quasi fosse una sorta di “sublimazione della semplicità”.

Le sue sono forme di una delicatezza disarmante, che – a dispetto della materia di cui sono fatte (il marmo è un materiale duro, potente, pesante, aspro, ingombrante, incombente, pregiato, compatto) – ecco, a dispetto di tutto questo, le sue sculture sembrano librarsi leggere, eleganti nello spazio, con quella stessa leggiadria che riconosciamo in una ballerina che volteggia davanti a noi e di cui non riusciamo a immaginare lo sforzo teso di ogni singolo muscolo, il controllo spasmodico di ogni gesto, respiro, la disciplina ferrea che non vediamo, che non dobbiamo vedere né sentire, nemmeno percepire per un battito di ciglia. Ma tutta questa disciplina, questa dedizione è là oltre quella forma, oltre quella contorsione, quel davanti e dietro che ci catturano per l’apparente impossibilità di cui sono compenetrate.

Non c’è magia. C’è la potenza dello sguardo e del gesto. C’è il desiderio di appropriarsi dell’impossibile, di accarezzare l’anima delle cose che invece che stare sotto qualche volta si impone ai nostri sensi, viene letteralmente fuori per farsi sentire, vedere, toccare, accarezzare, contemplare.

Il marmo in sé è il risultato di una metamorfosi, di stratificazioni così antiche da non poterne avere memoria, ma di cui costituisce una traccia preziosa.

E le tracce sono dei segni, qualche volta diventano addirittura dei simboli, a seconda di quanto invisibile portano con sé. Petra Weiss lo sa bene, dato che crea delle composizioni sorprendenti attingendo a un mondo visionario di segni e cromie sempre diverse, che esplora e che compone in intrecci sempre inediti, ricchi di dettagli che diventano a loro volta fonte di infinita ispirazione. Le sue ceramiche, così come i suoi legni cromati trasmettono calore, suggeriscono una ritualità (stele, totem) nel plasmare e manipolare la materia fino a trasformarla in segni, ideogrammi, sogni, lettere. Una ritualità che attraversa la dimensione artigianale del fare con estro e con estroversione, tutta volta a entrare in comunicazione con l’altro da sé, in un movimento dentro-fuori-basso-alto-sopra-sotto-vuoto-pieno-colorato-carico-leggero-profondo in cui non ci sono opposizioni ma composizioni… Le sue cromie riecheggiano corallo, cielo e mare, onde stilizzate in ritmi geometrici che danzano davanti ai nostri occhi.

Il tempo è altro, non è una somma, è un’immersione nell’infinito in cui il mondo vegetale, minerale, alghe, cristalli, liquidi, fibre e venature convivono, si espandono e si ritraggono come il respiro della vita che ci attraversa.

 

Insomma io sono molto grata a queste tre artiste, custodi della memoria, custodi del tempio, ma anche creatrici di onde e vibrazioni, per aver attraversato me come spero attraversino anche ciascuno di voi, per essere mosse dalla determinazione, consapevole o meno, di evocare forze sottili e potenti al tempo stesso, per saper essere delle “conduttrici” di energie capaci di trasformare quello che i loro sensi captano e trasformano.

 

 

E adesso posso tornare nella mia postura preferita, quella dell’immersione nel flusso che conduce e dell’ascolto.

Marguerite Yourcenar

 

 

Di fronte a questa nostra umanità più che mai percepita come effimera, di fronte a questo nostro mondo animale e vegetale di cui noi stessi acceleriamo la perdita, sembra che l'emozione e la devozione di Roger Caillois oppongano un rifiuto; è infatti alla ricerca di una sostanza meno effimera, di una materia più pura. E la trova nell'universo delle pietre: 'lo specchio oscuro dell'ossidiana', vetrificata dallo scorrere di migliaia di secoli, sotto l'influsso di temperature per noi inconcepibili; il diamante che, ancora celato nella terra, reca in sé la magnificenza del suo futuro splendore; la fugacità del mercurio; il cristallo, che dona insegnamenti all'uomo accogliendo in sé impurità che pongono a repentaglio la trasparenza e la rettitudine degli assi - gli aghi del ferro, le schiume della clorite, i capelli del rutilo -, e perseguendo, malgrado esse, una limpida crescita. Il cristallo, i cui prismi - e Caillois ce lo ricorda mirabilmente -, non più che le anime, ne proiettano le ombre.