Un caro saluto a tutti i presenti.

 

Un dialogo, due scultori, Paolo Di Capua e Antonio Tabet, nella mostra “Nero e bianco”, idea contrastiva per far partecipare l’ombra, l’altro, l’estraneo, il flusso, il puro, l’incanto.

Far danzare la luce tra contrasti e proiezioni, tra incisione e intaglio, tra pensiero sospeso e lirico e pensiero logico, eppure, organico

Costole piane che ad incastro generano volume.

Paolo Di Capua e Antonio Tabet: croci e incroci, incastri e spazio scultoreo.

Non è stato facile curare l’allestimento perché ciascuna di queste sculture richiede un rapporto particolare con lo spazio. Ma grazia anche alle affinità e all’armonia con i due artisti, sono di parte abbiamo trovato una dimensione intensa.

I suoni in sala sono stati realizzati appositamente da Daniele Christen in due momenti che incontrano l’una e l’altra opera.

Ricordo, prima di lasciare la parola a Rosa Pierno, critico d’arte, che il programma prevede: lunedì prossimo, per gli incontri di Acquapoetica, Gilberto Isella presenta la poetessa Rita Iacomino, attiva a Roma.

Di Capua, Pierno e Iacomino vengono da Roma a riprova che areapangeart sta tessendo profonde relazioni con l’ambiente artistico italiano.

Seguirà il concerto, “Stelle e legno”, ove protagonista è quell’oriente interpretato dal violino della giapponese Aska e dal basso di Carlos Bruschini, argentino-toscano.

Accennavo all’Oriente, sia per Paolo Di Capua, con il suo tempio bianco e il suo amore per l’Asia, sia per Antonio Tabet che pone al centro del suo lavoro la tecnica dell’incastro che è anche, per la cultura orientale, il migliore metodo per legare la materia e l'anima.

Seguirà il secondo concerto ( 1 aprile) che vede coinvolti Daniele Christen e il percussionista Santos Sgrò, entrambi genereranno un dialogo appositamente curato per l'esposizione, dal titolo:“Legno”.

Lunedì 8 marzo per la sezione cinema, Werner Weick e Andrea Andreotti, iniziano un nuovo ciclo di documentari sull’Apocalisse, dove la visione del tempo diviene quella del tempio.

Per concludere il 15 aprile, terminiamo gli incontri dedicati dall’esposizione con una serata dove protagonisti sono i due artisti e le loro poetiche, condurrà Rosa Pierno a cui cedo la parola.

Grazie L. Müller

 

        

 

Per la mostra “Nero-Bianco” di Paolo Di Capua e Antonio Tabet,

 

a cura di Loredana Müller,

 

testo presentazione ROSA PIERNO

 

 

Una premessa: voglio questa volta, diversamente dalle altre, affrontare distintamente i lavori in mostra di Tabet e Di Capua, perché immediate solo le similitudini formali (la geometria, il monocolore, l’ambito scultoreo, il materiale, l’assemblaggio) mentre proprio per questo mi preme metterne in evidenza i punti di discontinuità.

 

Paolo Di Capua

 

Nelle opere di Paolo Di Capua troviamo una forte esigenza di ordine sistematico, riflessivo, strutturale. Lo sviluppo in serie è testimone di un processo in fieri dove si valutano i diversi effetti compositivi degli elementi scelti (quasi un abaco) nelle diverse relazioni che intrattengono al fine di ottenerne valenze semantiche, oltre che iconiche, diverse. Tale operazione analitica sul linguaggio visivo ottiene, tramite, appunto, l’utilizzo dei singoli elementi aggregati, di volta in volta, in maniera diversa, l’articolazione di un sistema: tutta l’attenzione va alle relazioni interne che le unità stabiliscono nell’opera.

 

Il marcato contorno delle figure geometriche, le quali sono loggetto principale della rappresentazione, inclina volutamente per una significazione  non espressiva, secondo la quale il disegno è a fondamento delle arti (pittura, scultura, architettura), dichiarando così l’appartenenza dellartista a una posizione maturata in pieno Rinascimento. Lutilizzo di tale codice (poligoni, rette) non estromette in Di Capua del tutto, però, la componente emotiva affidata al trattamento della superficie lignea che è come limpressione della motilità psicologica dellartista. Di Capua non tralascia di evidenziare le caratteristiche del legno che rimandano direttamente al rapporto non astratto col reale. Resta sempre attivo il rimando allesterno dellopera, il rinvio a quella natura che per Di Capua non deve essere mai dimenticata o evitata. Il processo riduttivo a pochi elementi di base con cui realizzare la varietà delle relazioni non ostruisce mai, volutamente, il passaggio dalla continuità naturale alla discontinuità del segno. Non a caso, i colpi di sgorbia realizzano una superficie mossa come la superficie di acque fluviali e i parallelepipedi poggiati sui piani lignei - quasi ponti tra zone diverse dellopera, proiettano ombre che rendono la rappresentazione l’ analogon di un paesaggio. Sempre presente, pertanto, in Di Capua, un atteggiamento spontaneamente espressivo che tiene ben saldi i due estremi della corda: il sé e la natura, la forma naturale e quella astratta. In tal senso, lartista si àncora a una forma che è terreno di possibilità interpretative: le sue opere sono il teatro di elementi che mostrano disponibilità ad accogliere letture sempre variabili.

 

Sul crinale formato dai versanti della coppia determinato/indeterminato si gioca l’invito al fruitore, chiamato a interpretare gli elementi assemblati in configurazioni diverse e lo svolgersi della serie “Ho messo bianco su bianco”. In tal modo, il movimento è presente, nelle opere dell’artista romano, tramite il basculamento fra le diverse componenti che costituiscono i lavori, situati tra superficie piana e superficie scultorea e tra artista e fruitore. Il dialogo si attua diversi piani, non solo fra gli elementi geometrici o i segni lasciati dalla sgorbia: triangoli, cerchi, losanghe, parallelepipedi, ma anche fra superfici lisce e scolpite, che mostrano la trama materica del legno, assieme all’atto scultoreo e all’atto compositivo. Anche la luce ha un ruolo ineliminabile, nel suo rapporto con l’ombra, per introdurre il moto nell’opera.

 

Nell’opera “Salita al tempio”, 1994, realizzata con legno assemblato e scolpito, l’assemblaggio di assi configura la forma, oltre che appunto con la sovrapposizione dei listelli di legno, anche tramite svuotamento. L’opera appare sia scavata sia ottenuta per incremento del materiale. Inoltre, un ulteriore colloquio si dipana tra profilo geometrico delle assi e curva della parte scavata: la forma complessiva dell’opera è, infatti, ottenuta grazie all’utilizzo di listelli squadrati, quasi una quadratura di un ovale parziale che mette in continua relazione il curvo e il rettilineo, ove il passaggio dall’uno all’altro degli elementi è tale da far percepire un moto perenne durante l’osservazione. L’introduzione di elementi dal sapore organico, quelle foglie che si elevano dal fondale scolpito, con geometrica pulizia, recanti le incisioni che attestano delle nervature, configuranti la serie “Omaggio a Paul Klee”, 2018, giocano sull’equilibrismo delle figure, sebbene espresse in termini astratti (triangoli e cerchi).

 

La ricerca è condotta, oltre che sul materiale, sul colore. Si osservi l’opera “Pianta notturna”, 2011, una serie di cubi ottenuti con fusione di alluminio da una matrice lignea che conserva sulla superficie la marezzatura delle fibre vegetali, ma che il colore metallico snatura. Il tentativo di rendere ambigua la materia, con caratteristiche appartenenti a un’altra materia, si colloca in un sistema di variazioni che non si ferma al canonico svolgersi degli assemblaggi, ma che riguarda il modo in cui percepiamo ciò che ha subito un trattamento alterante. I cubi impilati accennano a una colonna infinita: quasi un’opera aperta. E sappiamo quanto il concetto di opera aperta sia una connotazione attiva all’interno delle aree dell’astrattismo e dell’informale. In Paolo Di Capua, informale e astratto mostrano complementarità e integrazione, essendo entrambe le posizioni prese in una dialettica che è indice di una disposizione nel confronti del mondo; attraverso esse, l’artista romano, intende cogliere il senso riposto della realtà, situato cioè al di là delle apparenze fenomeniche.

 

Più precisamente, la ricerca di una realtà pura, la ricerca di ciò che ha una validità oggettiva e immutabile, in Di Capua non espunge totalmente le apparenze fenomeniche, le quali vengono immesse nell’opera con funzione dialogica rispetto alla rappresentazione delle forme geometriche. Nelle opere, il concavo e il convesso riescono, pur nella dimensione del bassorilievo, ad attivare piani dialettici: le forme cavate sono il simbolo del gesto, del fluire, del divenire; le forme sovrapposte risiedono su un livello spaziale superiore: sono elementi geometrici che costituiscono l’altra voce del dialogo, quella che coinvolge la costruzione spaziale. Tale contrapposizione è forse irrichiudibile per Di Capua, poiché i due agenti antagonisti non si mescidano. Da una parte, forme chiare e distinte, dall’altra un’adesione vitalistica tra mondo interiore e realtà. Da un lato, una forma essenziale e dall’altro un oggetto colto nell’infinito flusso esterno: entrambi i modi, come sponde, individuano lo spazio di agibilità dell’artista.

 

La scelta del colore invita a considerare l’espressione di una realtà assoluta, al modo in cui è stata coniata nella definizione mallarmeana: “puro spazio bianco”. Nella mostra è presente anche un’opera in bronzo totalmente patinata di nero, “Rilievo di Spagna”, 2002, che è scelta equivalente, toccando con entrambe le opere i due estremi della gamma cromatica. Ma a questo punto siamo già avvertiti: non è che un’ennesima verifica della tenuta dello spazio mentale.

 

  

Antonio Tabet

 

Antonio Tabet lavora progettando un sistema costituito da elementi componibili e da regole di assemblaggio. Utilizzando linee rette e curve, attenendosi strettamente al colore originale del materiale (ocra o grigio/nero), l’artista ticinese combina gli elementi piani, che compone secondo gli incastri progettati, i quali gli consentono di ottenere oggetti volumetrici. Gli elementi appartengono a una serie chiusa, ove ciascun elemento deve essere montato esclusivamente in una predeterminata posizione. Le opere ci appaiono come forme del movimento. Movimenti mentali, percettivi, affettivi, ma anche paradossali, poiché il moto di queste opere è di fatto bloccato, la forma è compiuta, eppure alcune strutture sembrano ruotare affette da un moto vorticoso. Quello a cui Tabet cerca di dare forma, a partire da un elemento-costola tramite la rotazione, è una relazione con lo spazio, relazione che non si lascia pensare nella dimensione euclidea, ma in quella artistica.

 

Eppure, l’opera con il suo meccanismo di incastro (composizione e ricomposizione), inclina decisamente verso l’eliminazione dell’espressione dell’individualità artistica. L’assenza, infatti, di qualsiasi dato espressivo rende centrale il modello scientifico. La sua assunzione radica le personali indagini dell’artefice su un piano analitico-descrittivo. La polisemia cede il regno alla monosemia e la sfera vale una sfera. La sua componibilità vale la sua componibilità, esemplificata da “Uno e trino”, 2018, tre pezzi autonomi, ma anche componibili. Al centro della scena è l’idea generatrice: lidea che produce loggetto sovrasta l’opera. È l’idea nascosta nel cuore stesso dei lavori, e che induce nel fruitore il desiderio di smontarla per carpire i segreti della sua componibilità. Si potrebbe addirittura affermare che loggetto contiene la chiave della propria creazione. L’artista è al di fuori dellorizzonte dellopera. Le sfere, i cilindri variamente composti stanno a indicare come referente il concetto che le ha generate.

 

Tuttavia, la mancanza di soggettività è oggi, ad esempio, nella pratica architettonica, una costante a cui proprio il disegno fornisce un aggancio, una verifica tra le due sfere del soggettivo e dell’oggettivo, del possibile e dell’utopia, reintroducendo per questa via, la valenza autoriale. Tutta pendente dalla parte della formalizzazione e della riduzione del contenuto alla forma, le opere di Antonio Tabet non cessano di agire all’improvviso non più sulla differenza e sulla discontinuità, ma sulla somiglianza e sulla continuità, trovando un terreno analogicamente ricco, pieno di reminiscenze, in particolare rinascimentali e illuministiche, sfuggendo così alla pura tautologia insita in ogni referenziale formalizzazione. Ma, diremmo con maggior convinzione, che i due statuti della differenza e della somiglianza convivono. L’oscillazione costante tra visibile e invisibile si fa carico di traghettare queste piccole quanto monumentali sfere nel campo dell’arte, sottraendole definitivamente alla geometria.

 

Abbandonate totalmente le forme naturalistiche, il funzionamento di tale sistema è costituito da una verifica degli strumenti e della comunicazione, rilevabile anche dall’utilizzo del precompresso, che del legno, la materia originaria, ha perso le caratteristiche più familiari. I criteri oggettivi invitano a valutare l’opera come espressione esatta in se stessa, senz’altro referente esterno, dicevamo, ma, come “Il sogno di Sisifo”, 2014, indica, la capacità di far slittare queste forme verso addensamenti di senso, è invero notevole. La forma, infatti, da Tabet, è intesa come un fatto autonomo, ma non avulso dall’ambiente sociale e storico, nel quale vuole inserirsi in quanto risposta progettuale alle esigenze, appunto, sociali, astraendo dal caotico fluttuare dei fenomeni.

 

A partire dalla definizione di un elemento, Tabet sperimenta la creazione del volume. E con l’inserimento di una variazione nello sviluppo seriale degli elementi, il volume passa in secondo piano e intercetta direzioni, tensioni, forze orientate. Uno scarto sorprendente! È solo la struttura che rende manifesto lo spazio. Husserl afferma che esiste una “logica del mondo sensibile”, il quale è il dominio dell’artista: area in cui sperimentare forme e la loro relazione con lo spazio. I volumi generati in siffatto modo, costruiti su una perfetta circolarità, hanno un’incompletezza irriducibile in rapporto alla sfera piena: si sviluppano intorno al vuoto, all’inconosciuto.

 

Nell’opera “Il nocciolo della questione”, 2018, esterno e interno fanno parte dello stesso elemento di base che ruota creando l'impressione di due elementi separati, rafforzata dal fatto che i tagli della sfera interna sono rivestiti da una superficie a specchio adesiva. Come traducendo una funzione matematica, montare le strutture vuol dire ottenere con il gesto e la sua ripetizione d’integrare lo spazio, d’incorporare forma e spazio, mettendoli in relazione. Il procedimento, che ci riporta nel solco degli artisti del gruppo De Stijl, è quello dell’ordine combinatorio. La composizione degli elementi avviene su un piano logico-matematico con il trasferimento delle relazioni matematiche in equivalenti visuali.

 

Poligoni rinascimentali, poligoni che ne rinchiudono altri, in una sorta di geometria da far perdere la testa, sono, invero, un risultato notevole che attrae a sé infinite analogie. Il pensiero va a Esher, ma anche alle architetture ideate da Boullée, che rendono lo spazio una cosa tangibile: si vedano “Desiderio d’evasione”, 2018 e “Tango appassionato”, 2014, ove quest’ultima opera appare come una costruzione in scala. Le opere di Tabet sembrano oggetti architettonici spiazzati dal contesto e dalla funzione. Entità volumetriche che non rimandano a un contenuto e a una funzione, ma li nominano nominando se stesse.

 

Le opere formano una collezione da wunderkammer. Oggetti mentali divenuti concreti, le sfere nascoste, avvolte da palizzate gigantesche, all’improvviso potrebbero anche muoversi, come in “Caduta controllata”, 2018. L’intersezione di elementi diversi, che ruotando sviluppano altri volumi, i quali si manifestano quasi all’improvviso attraverso il gioco delle ombre, ce li fa percepire non più come opere astratte, ma dotate di un qualche potere arcano. La componibilità, derogando dalla simmetria, fa sorgere ulteriori domande sugli incastri. Il ricordo va agli ingranaggi delle macchine leonardesche, come accade per l’opera “La ricerca dell’equilibrio”, 2018. E se le sfere si compongono fra di loro, “In tutti i sensi”, 2016, dando vita a conglomerati, un’altra analogia visiva sorge: quella biologica. Quando la simmetria si rompe anche lungo l’asse verticale, come nell’opera “L’Ascesa”, 2018, la struttura si mostra instabile come se fosse affetta da una sconnessione. E l’opera “Respiro controllato”, 2018, sembra riuscire a mantenere un equilibrio, anche nella apparente disconnessione degli elementi. Antonio Tabet introduce, avvertitissimo, il sabotaggio della regola, facendo deviare il progetto e introducendo l’errore che rimanda a nuove scoperte.

 

Nonostante, dunque, nel primo impatto, le relazioni tra i segni e le cose appaiano recise, le opere finiscono con l’inglobare nuovamente la profondità storica, divenendo piuttosto luoghi di contraddizione tra soggetto ed oggetto, tra senso e forma, tra idea e materia. Parliamo di sollecitazioni opposte e simultanee che necessitano, per essere comprese, di un lavoro analitico e consapevole, ma anche immaginifico.