liberamente estratto dal testo di Lea Ticozzi
STRINGERE
IN PUGNO OGNI
PRIMAVERA
SEGNI
concerto e recitazione
percussioni EDITH SALMEN
lettura e azione LEA TICOZZI
pagina in ceramolle-lapis di Loredana Müller
sala espositiva areapangeart 2018
TRACCE, SEGNI, ENERGIE
esposizione opere di Dina Moretti carte di Loredana Müller
...
Tutto comincia quando la cima della quotidiana montagna limpidamente appare,
stagliandosi nel suo rigoglio verde e negli strapiombi di roccia: il treno percorre le sue pendici,
al bordo di un lago. Al tocco di una spalla, tutto si ferma.
La ricchezza dello scricchiolare delle foglie del passato autunno,
nutrimento per il nuovo vivere di clorofilla,
e il rinnovato arrampicarsi di linfa
splendono nel tremolio vitale di ogni schiusa gemma.
...
un caro saluto a tutti i presenti,
SEGNI
ALLE PERCUSSIONI E SUONI MISTERIOSI
EDITH SALMEN
VOCE RECITANTE AZIONE IN GESTI E TESTI DI
LEA TICOZZI
" COME IN UN GREMBO,
SOSPESI TRA SEMI-SUONI.
COME IN UN ALTROVE
SILENZIO E SENSI
COME RITMO
IN DIALOGO CON PAROLE
LE GESTA-AZIONI
COME IN UN SOGNO,
AL CUORE
DELL'IMMAGINAZIONE,
SENS'AZIONI
RISPETTO ASCOLTO,
UNITI COME CUCITI.
grazie lore
Stringere in pugno ogni nuova primavera (Autunno 2012 – Primavera 2018 - Lea Ticozzi )
Tutto comincia quando la cima della quotidiana montagna limpidamente appare, stagliandosi nel suo rigoglio
verde e negli strapiombi di roccia: il treno percorre le sue pendici, al bordo di un lago. Al tocco di una spalla,
tutto si ferma. La ricchezza dello scricchiolare delle foglie del passato autunno, nutrimento per il nuovo
vivere di clorofilla, e il rinnovato arrampicarsi di linfa splendono nel tremolio vitale di ogni schiusa gemma.
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Una nuova primavera e l’attimo in cui si percepisce il battito del cuore rifulgono. Il ritmo dell’esistenza
cambia, con quel treno che può scorrere a gran velocità e per ore e ore e ore, per un tempo senza
memoria, trasportandosi per un’infinita prateria, come a cercare di raggiungere l’estremità di un
continente dopo esser partito dalla riva opposta. E forse oltre la prateria, i laghi e le montagne, la
ferraglia attraversa fiumi, metropoli, discariche, foreste di alberi secolari, baraccopoli, usignuoli, corvi,
santoni indù, pietre povere, stoffe, colori, pantofole, asfalti, pendii scoscesi e dolori. In un attimo.
Accompagnata dalla mano delicata che risveglia gli occhi e il tempo, un’ondata di fragranza di mare
giunge alle narici. Le pupille divorano il gusto di salsedine dell’aria. Un boccone salato colpisce l’iride
e un raggio di sole depone sul respiro un granello di sabbia: si percepiscono polvere e sali minerali fra
alberi e acqua dolce. L’aria abbraccia i polmoni e dice che bisogna trovare un filo.
Uno strano tarlo di curiosità e profondità di tatto si impossessano dei pensieri, con incanto: bisogna
cercare un filo di lino? Di cotone? Di seta? Usabile per rammendare calze o per decorare una trapunta?
Oppure di plastica? O di metallo? O un capello libero nel vento? Questo filo avrebbe sfilato vestiti di
dosso? Oppure avrebbe coperto? L’attimo stringe i piedi nelle calzature e impone loro di procedere,
La primavera rinnova la morbidezza della terra. Si sente il calore della mano adagiata sulla spalla.
Bisogna camminare per strade di città e campagna, inciampando in sassi, a volte senza scarpe,
medicando le dita fra cui si intrufolano terra e vento, spine e pollini, riposando i polpacci facendoli
penzolare da rami di albero e dondolandoli per dare movimento a quelle altalene tintinnanti di foglie
sfacciate che sono gemme. La sera si sta supini a guardare le stelle e quando piove si stendono i talloni
induriti e le ginocchia irrigidite dal tanto andare fuori dagli antri che danno rifugio, così che la pioggia
sciolga i bendaggi e purifichi le dita, libere e leggere. Sguazzano così imperturbabili nel cielo e, dopo
lo scorrere delle gocce d’acqua, sentono l’aria delicata strofinarglisi addosso, prima che due piedi si
rannicchiano uno sull’altro e ritrovano il calore del luogo coperto e del loro corpo.
Ogni mattina è di buon augurio. Fili di pioggia, d’aria e d’erba danno indizi di qualche filo da
percorrere, scorto da un equilibrista sulla punta dei piedi che china il capo a osservare il diramarsi di
file di formiche o che naso all’insù segue il corso di una coccinella, di una mosca, di una zanzara e nel
loro volo scorge in basso la comparsa di un millepiedi che onduloso vagola, amico di una scolopendra.
Si viaggia in un intreccio di minuscole pullulanti stazioni. Bacche nei boschi. Funghi fra un filare di
cipressi e spighe di grano ai lati di estese rotaie.
Il riposo avviene su rivoli di sangue da tempo penetrati nella terra e su scanalature di rocce, su striature
di pneumatici e sullo sciogliersi delle nevi. Il risveglio è su fughe di vie lastricate, fra incroci di edifici,
fra inciampi di cavi, su spigoli di mobili e materassi, sempre in cerca.
Una stringa? Un filo di nylon? Una cucitura di gonna? Una cancellatura di gomma? Una trama di
jeans? Una sutura chirurgica? Una costellazione di lentiggini? La direzione di uno sguardo? La frattura
di un muro? La rete di un computer? L’avvolgersi di uno spaghetto? La direzione di una piuma nel
vento? Fili. Sotto la linea delle sopracciglia si incontrano e seguono lo scorrere di lacrime, i contorni di
visi e sorrisi. In questo peregrinare un giorno d’estate il mare si è imposto e i fili si sono interrotti sullo scrosciare
delle onde, sul loro fluttuare in eterno, sui granelli di sabbia e sale che massaggiano le caviglie immerse,
fuggendo al rifluire delle onde. Nel luogo in cui viene meno la terra, piano piano l’acqua inghiotte
radici mobili. I gabbiani continuano la loro linea di condotta seguendo la scia perduta di una nave,
mentre piedi nudi devono fermarsi: non c’è linea su cui solcare il mare e i bastimenti non sono linee da seguire.
Bisogna sedersi e stendere le gambe su quel confine, cullati dal moto di un andare e venire, incantati
dal tragitto di chi ha proseguito assaporando lo sfaldarsi della linea di terra. Sul bordo di quella dispersione,
mentre le mani affondano nella sabbia bagnata, i reticoli digitali inciampano in un lungo filo di seta poi stretto
nel calore del pugno. È il residuo di qualcuno approdato fortunosamente a riva? È caduto da un kimono
o da un foulard che viene sbattuto dai venti? È stato impigliato nel graffio di un litigio? È stato stretto da un
bambino che si è aggrappato alla gonna di una donna? È un capello di angelo intrappolato nella vita umana?
Il sentore del tocco di una mano sulla spalla dà la pace e l’energia per tirarlo con cautela e liberarlo
dalla sua prigione di sabbia e sassi e polvere e acqua, e dà buon tempo per sentirlo scorrere e fermarsi
fra le dita, senza strappi. All’altro capo del filo c’è una certa resistenza. Sembra di pescare dal mare un
pianoforte a coda, un baule ricco di gioie. E un divano, una casa, una vita. Forse fra poco comparirà
addirittura un continente. Dopo aver tirato con infinita delicatezza e indomabile determinazione quel filo,
l’acqua del lungo viaggio su fondali marini scivola via all’apparire della ricchezza riportata all’asciutto.
Una pietra rotola oltre i piedi immersi e le gambe stese e raggiunge la figura seduta sulla sabbia. Cogliendo quel
sasso levigato, essa lo osserva da vicino per scoprire le striature di una vita che era stata: un incontro
infantile fra la terra e il suo mare, fra una biglia della natura e la mano di un bambino, fra chi l’aveva
lasciato e chi lo sta ritrovando.
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Grazie a una mano calda che stringe una spalla, capita di vedere con limpidezza lo stagliarsi di una
montagna su un lago. Il sole la rende magnetica, soprattutto quando la primavera con le sue linde
piogge e i primi caldi dopo l’inverno la fanno esplodere. E la montagna è un sasso grande e piccolo che
sta sulla terra e nell’universo. Stringerlo nella mano, come fosse una biglia trovata nel mare.