Grazie di essere qui ad areapangeart questa sera. Ad Annamaria, che è stata sempre vicino a Massimo Cavalli con caparbietà e coraggio. Qui a cogliere questo nostro gesto di rispetto e affetto. SEGNI E SCRITTURA perchè i nostri segni che siano letterari, scultorei, pittorici o grafici, sono segni sentiti, portati ad essere traccia esistenziale e sguardo sul mondo. Cinque poeti, dieci artisti visivi per un omaggio, uniti al musicista, all'editore, hanno voluta generare partecipando a questa esposizione un atto di continuità e fedeltà alla necessità delle arti, del segno individuale e individuato, della materia percorsa nei suoi meandri e sottili risvolti, di corpo, di segno e di suono. I suoni in sala sono di Claudio Farinone; aprés Bach, per Massimo Cavalli e la predilezione per il sommo compositore. I due poeti in dialogo direttamente con Massimo Cavalli sono: Gilberto Isella a cui darò la parola fra poco, e Antonio Rossi, li ringrazio entrambi. Antonio Rossi assieme all'editore Josef Weiss, e a Giuliana Weiss, sono coloro che hanno generato la cartella di cui oggi qui possiamo gustarne, pagina per pagina. AGHIFOGLI con cinque testi di Antonio Rossi e tre acqueforti di Massimo Cavalli, un opera intensa nata appena prima che Massimo scivolasse via nel settembre del 2017. Sulla stessa parete una seconda cartella edita da Grafica Fioroni Marche, LICHENE O TERRA dove quattro acqueforti di Cavalli dialogano con un testo di Gilberto Isella del 2000. E debbo scusare l'assenza di poeti cari a Massimo Cavalli come Giorgio Orelli e Alberto Nessi, e altri, per motivi logistici e di spazio non appaiono. Alla sinistra della porta, trovate un testo estratto da una preziosa collana: Arte Moderna Italiana, il n° 98, all'Insegna del Pesce d'oro, a cura di Vanni Scheiwiller; dedicata a Massimo Cavalli, testo, che sembra possa dare titoli a questa esposizione, ne leggo ora un cenno: MASSIMO CAVALLI di Remo Berretta 1984"-ll nero tattile, il forte chiaroscuro, partizione rigida - la potente costruzione ascendente, tronca a forti fasci incrociati e volute, elasticità di forme e volumi nelle proiezioni sghembe, a scorci, - "sempre il contrappunto tratto a punta-tratto spesso, e il tema del rigo, gli incroci, gli accenni alla spirale - la linea flessa a tratto forte, costruttivo, ripiegata, richiusa. Non tensione, ma pura presenza. Un che di 'meditativo', sospeso." Sono stata Allieva di Massimo, vicina alla visione liberata sul foglio, grazie al suo orientamento, che per Massimo generava già una disposizione d'animo. Ora gli artisti coinvolti: Michela Torricelli, ceramista, nata nel 1972, è la più giovane in sala, ed è stata negli ultimi anni d'insegnamento allieva di Massimo; Torricelli, è presente con un omaggio che dagli ultimi esodi in porcellana, la portano a fare un passo indietro e ritornare ad operare per questa occasione al Raku nudo, i motivi sono semplici, il segno, il bianco e il nero, e riesce a valorizzarne conpresenze per lei inusuali, le terre i bruni d'ombra, cari a Massimo. Si svelano sorgivi in Michela; tra i segni ispirati a Cavalli, abitano e generano un nuovo respiro a queste sue quasi sfere. Paolo Foletti, nato nel 1957, l'allievo più anziano di Massimo in areapangeart, integro, severo dalla nitidezza pittorica assoluta, anche la sua opera è attenta sottilmente alla cromia di Cavalli, Paolo ha quella profonda coerenza diversa eppure simile a quella di Massimo. La sua ricerca, procede da anni su pochissimi toni e sulla tensione del formato tra orizzonte e spazio verticale, dove la profondità ha un suo ruolo. Olio su tavola raffinatissimo. Lo scultore Antonio Tabet, nato nel 1941, la sua opera ha come asse la verticalità intervallata, semi sfere a volte, la musicalità è matematica libera, ritmo generato e strutturato, i suoi bozzetti, che ora prendono esiti nuovi per dimensione; sono piani tagliati, pensieri ad incastro, in variazione, risvolto diverso, ma comunque omaggio. La scultrice Anne France Aguet, nata nel 1964 di Losanna, lavora la pietra e qui nello specifico il marmo delle cave di Michelangelo, Cave delle Alpi Apuane di Carrara. Dove il non finito, è lezione, la direzione, l'orientamento della composizione, non possono sottrarsi, ed è una pagina di marmo che la scultrice dedica a Massimo Cavalli, dove il graffiare, il togliere diviene la sua cifra d'unione con il fonema l'unità minima del segno-segnato. Nella seconda scultura il viaggio di sormonto e contrappunto dato da un segmento ripiegato. A seguire le tre sculture in argilla refrattaria dedicate a Massimo Cavalli da Petra Weiss nata nel 1947, qui la nota ceramista indaga il segno come fenditura naturale, intesa come nuova soglia, valore che emerge, detiene lo spazio della memoria, passaggio, traccia scavata, ombra tratta dal corpo ceramico, intensa di minute gravità. Segno d'ascolto, spiritualità della materia. Le mie carte calcografiche, nate quando Massimo è venuto a mancare, riflettono sugli argini di un foglio, portandoli al cerchio. Incisione diretta tra puntasecca e bulino su lastra di zinco, due momenti che si appartengono; dal titolo Individuazione . Ora alla saletta la carta ad inchiostro di Paolo Di Capua, nato nel 1957 di Roma, ha visto le opere di Massimo Cavalli a Bellinzona, proprio venendo a Camorino,la sua carta segnica e compatta, senza tregua. Paolo Di Capua è scultore che spezza il legno, si coglie affinità per determinazione. Le carte di Giuliana Weiss, nata nel 1948, autrice della fotografia dell'invito. Assieme a Josef Weiss, hanno bottega a Mendriso animata da entrambi. Le sue carte partono da lì, dal mestiere che conducono, tra grafica, rilegatoria ed editoria di valore, generano libri d'arte originali. La carta marmorizzata, per Giuliana, in un secondo tempo, è divenuto un suo agire autonomo. Un mia carta dipinta a incollo su tavola, che tocca quelle erbacce che si colgono ai margini delle strade, memori di parole suggestive di Cavalli. Per giungere ad un incisione di Catia Berbeglia, nata nel 1967, omaggia Massimo Cavalli, che non ha conosciuto ma di cui si è appassionata. La sua pagina tra puntasecca, maniera pittorica e acquatinta, parla di prossimi esodi, di passaggio dal naturalismo all'astrazione generata da tensioni interiori.Ne nasce una plaquette con il poeta Andrea Fazioli, minimale ma preziosa. Due plaquette con pagine incise dalla sottoscritta, rispettivamente con testi di Lea Ticozzi e di Rosa Pierno poetesse di valore, in omaggio a segno inciso toccando l'intoso di Massimo Cavalli che era pittore ed incisore. Per concludere l'ultima parete, dove lo sguardo incontra le opere di Dina Moretti, nata nel 1958, pittrice di rara profondità, accoglie l'omaggio a Massimo Cavalli e fa muovere ancora il vento sulle sue erbe, dando al segno senso d'apparteneza, pur se un destino caduco, meravigliosamente terreno e creaturale. Ringrazio, mi taccio e cedo la parola a Gilberto Isella. LM.

 

 

Segni e scrittura per Massimo Cavalli di Gilberto Isella

 

Segni e scrittura. Massimo Cavalli ha sempre mostrato vivo interesse per la parola e la lingua in generale. E in particolare per la parola del narratore o poeta i cui testi s’ispirano alle sue opere, o quella del critico che su queste opere conduce analisi ed esprime valutazioni. Non era una curiosità estemporanea, la sua, quanto l’attenzione verso un modo di comunicare che lui riteneva coimplicato con il proprio, entro lo sterminato universo dei segni. Come se la parola scritta fosse una componente imprescindibile di quella che chiamerei volentieri la biofisica dell’immaginario, vale a dire una condizione di partenza forse innata e preconscia, anteriore comunque al cristallizzarsi dell’atto creativo in territori segnici separati e circoscritti. Che sono poi i luoghi specifici dell’arte visiva e della scrittura nell’accezione più ampia. Come se in qualche modo - per dirla in parole povere - attività creative di tipo differente volessero interrogarsi a vicenda, e l’una cercasse nell’altra una giustificazione ideale, il salvacondotto per un passaggio, uno scambio. Dirò in aggiunta che Massimo era un lettore vorace. Scopriamo, in una sua nota autobiografica, frasi eloquenti come queste: “Non so più dove sono i libri; in tre biblioteche, è come non averli. […] Per cercare un libro, certe volte ci metto due o tre ore, perché il posto si dimentica, cerco di rimetterlo sempre allo stesso posto, ma non sempre si riesce”. Libri ad ampio raggio per temi e contenuti, classici o moderni, non attaccamento a un genere o a uno stile specifico. Tanto è vero che quando riceveva in casa uno scrittore in vista di una collaborazione, poco gli importava la sua scuola d’appartenenza, realistica o d’indirizzo sperimentale che fosse. Ciò che contava per lui era la qualità, e beninteso un quoziente di empatia condiviso.

 

Questo gioco di attrazioni reciproche tra segno visivo e segno verbale lo documenta concretamente l’elevato numero di scrittori e critici che hanno avuto a che fare con Massimo, a partire dal suo illustre scopritore Virgilio Gilardoni nel 1957 – che ne studierà in particolare la produzione grafica - ma sono certamente troppi per citarli tutti. In quanto ai poeti, dai due Orelli a Nessi, Pusterla, Rossi, colui che vi parla e altri, va ribadito il fatto che si tratta di personalità molto diverse, talvolta dissonanti tra loro. Ci si potrebbe allora chiedere: come mai questi scrittori hanno trovato nell’opera di Cavalli, al di là della comune ammirazione per essa, stimoli creativi in grado di conciliarsi in varia misura con i rispettivi idiomi personali? Domanda lecita, tanto più che gli olii, le incisioni, i disegni in questione, se ne si considera il carattere non figurativo tra l’astratto e l’informale, offrirebbero scarsi elementi atti a tradursi hic et nunc in parole, in spunti per rappresentazioni naturalistiche fondate sull’analogia. Risponderei così: è proprio perché posta al riparo da condizionamenti tematici obbligati o da suggestioni mimetiche esplicite che l’astrazione rappresenta - paradossalmente - l’invito alla ricerca libera e incondizionata, nei territori dell’espressione verbale. La nozione di somiglianza, in qualunque modo la s’intenda, va dunque inscritta in un processo metaforico più profondo e articolato. Davanti a noi non ci sono oggetti d’esperienza, bensì schemi formali, densità cromatiche, linee-forza. Basta un intrico arboreo carpito a un’acquaforte, una tonalità verdescura che irrompa su una tela a dare l’input, basta la deviazione malinconica di un tratto a creare l’atmosfera ideale per un’immagine poetica. Che ciascuno realizzerà a seconda della propria indole e del proprio stile.

 

E d’altra parte, nell’opera postfigurativa di Cavalli si profilano, pur declinati in termini di allusività ed estrema rarefazione, campi semantici riconoscibili almeno per approssimazione, con le loro serie d’immagini che si replicano a vari livelli nel tempo, ma senza mai uguagliarsi: “Trovo, e ogni volta perdo, sempre la stessa immagine” afferma l’artista, ossessionato dall’endurance, da quella ‘monotonia trascendentale’ che a suo giudizio perseguiva l’artista contemporaneo Soulages. Ma crucci del genere non assillano forse anche gli scrittori? Per tornare ai campi di significazione, certo solo allusivi, possiamo dire che essi s’ispirano per lo più alla natura, a una natura còlta nella sua veste primordiale. “Una natura che si nasconde” ha scritto Flavio Bellocchio pensando forse a Eraclito. Lo stretto necessario comunque per indurre effetti, ombre o fantasmi di reale. Una sorta di criptorealtà se si vuole, che per quanto possa sembrare il risultato di un inabissamento, trattiene la memoria dei materiali figurativi presenti nell’esperienza giovanile di Cavalli, diciamo quella attestata fino alla fine degli Anni Cinquanta. Nessuna cesura radicale, insomma, tra un prima e un dopo. La traccia del passato è destinata a sopravvivere. E noi ci troveremo alle prese con i resti di un sogno remoto ma insopprimibile di realtà. Come afferma Remo Beretta, il critico più agguerrito che abbia avuto il nostro artista, “Nella pittura, dal ’55 al ’59, paesaggi, fiori, rocce, figura umana; contorni di sembianze naturali, fondo non prospettico”. Al punto da ottenere, in differita e attraverso posture oblique, componimenti poetici debitori di quella ricognizione naturale, nel segno dell’incanto lirico, o al contrario di una drammatica ruvidezza.

 

Ma è il medesimo Cavalli a venirci in soccorso, grazie soprattutto ai titoli apposti alle opere, e qui voglio limitarmi alle incisioni. A diciture prevalentemente concettuali e astratte, come Figure in movimento, Immagine o Composizione, che dagli Anni ’80 in poi convergeranno negli innumerevoli Senza titolo, egli ne accosta altre che fanno riferimento al mondo concreto, quasi per garantire un equilibrio nel sistema complessivo. Oltre al generico Paesaggio, incontriamo Motivo vegetale, o Filo d’erba - anni ’60- ‘70, ovvero binomi dove a guardar bene è il primo termine ad avere il sopravvento. Il vegetale relazionato a un motus primario della natura, al moto motivante del suo manifestarsi allo sguardo. Oppure l’erba restituita al suo schema morfologico essenziale, e cioè il filo, quel filo che, moltiplicato ad libitum, andrà magari a comporre un fitto insieme di aste parallele, enfatizzanti la verticalità. Presso alcuni poeti il referente vegetale prevale, pronunciato a diversi gradi d’intensità, in ogni modo come punto d’avvio o presupposto. Basti citare Rami di Alberto Nessi, Aghifogli di Antonio Rossi o Lichene o terra del sottoscritto. Altri, come Fabio Pusterla con Pietre, faranno invece emergere il regno minerale. Nel lodare la tela intitolata Crisantemo, del ’55, Giorgio Orelli notava quanto segue: “Che l’impulso informale risulti quivi accortamente affrenato e finisca per prevalere un chiaro intento compositivo, a vantaggio dell’immagine, ben lo indica la traiettoria del rosso sangue, tendente senza forzatura alla circulata melodia”. Sta di fatto che questo genere di titoli sembra concepito apposta per offrire un ponte alla parola poetica e alla sua elaborazione fantastica (Orelli, ad esempio, vedeva nel citato crisantemo una “luna lievitante”.) Sarei a questo punto tentato di estendere a Massimo una considerazione formulata da Piero Bigongiari a proposito del lavoro di Hans Hartung, forse l’artista internazionale più affine al nostro: “Questo lavoro che imita la natura nei suoi minimi termini genetici, ma che supera la teoria dell’imitazione per la metafora che mette in moto, in verità crea il mondo e non lo commenta”.

 

Creare il mondo, infatti. O riformularne la genesi, gli stati preistorici: conglomerati materici, partiture fitomorfe (ossia vegetali) in statu nascendi, e fenomeni affini ai quali ognuno di noi darà un nome diverso. Ma gli stati suddetti, una volta proiettati nell’opera, conseguiranno la loro texture in base a criteri cinetici, e questo grazie a un concorso di iterazioni e varianze in sequenza , incrociate o giustapposte a seconda dei casi. Impregnandosi di cadenze musicali, lo spazio di Cavalli si temporalizza: pulsazioni, battiti, ritmi in modo alterno sostenuti o rilassati. Vedremo allora tratteggiarsi poco a poco un habitat di valenza cosmica, una dimora senza limiti attrezzata per accogliere il vivente, per così dire nell’istante stesso del suo insorgere. Scansioni, dispositivi lineari a intreccio e simmetria variabili. Accogliere, dicevo. Ed è proprio al tema dell’accoglienza - accoglienza di un fiat lux improvviso - che ho dedicato una mia prosa poetica, di cui mi permetto di citare un breve lacerto: “Sapere che l’impromptu di ogni pupilla sarà accoglienza/ Che l’azzardo, in tessiture cieche, esporrà segni sopra la terra, gli improvvisi/ Che ogni pupilla filtrerà l’energia delle torbiere, dei raggi non ancora rimossi dal sole, per un filo di senso e d’accoglienza”.

 

Forse la parola più veritiera, riguardo all’opera di Cavalli, ma in sede critica, l’ha pronunciata il narratore Remo Beretta. Il quale, da buon intenditore di Husserl e della fenomenologia, nelle sue pagine dedicate all’artista si prefigge di ritornare alle “cose stesse”. Così da sgombrare il discorso da ogni interpretazione pretestuosa, da ogni incrostazione vagamente simbolistica o filosofeggiante, come si sarebbe tentati di fare davanti a un Kandinski o a un Klee. Le cose stesse, vale a dire l’immanenza irriducibile, l’esserci lì del lavoro di Cavalli. Con dizione scarna, ma ammirevole grazia, Beretta semplicemente narra, limitandosi a riprodurre le scansioni ritmiche, le sincopi, la nervosità pervasiva dell’opera. Anziché spiegare un dipinto, lo lo fa rifulgere nella parola. Parola scelta con un’attentissima cura della sua pertinenza, aggettivi spesso geminati, al fine di captare l’oggetto nel modo meno approssimativo possibile. Frasi nucleari, che trovano all’interno iterate sospensioni, un infittirsi di virgole, due punti, lineette o ancóra – per dare accesso all’intuizione felice di un collega - il virgolettato delle citazioni. E questo in analogia con quanto avviene, in termini di iati o pause infinitesimali, entro la trama visuale nel suo comporsi. “Sintassi strutturale”, la denominava Gilardoni. Sembra giusto, in conclusione, offrirne un piccolo frammento: “In Ritmico, 1966 (N.21): serrato, avvitante, materia dura; i colori, timbrici, coincidenti con i tratti strutturanti, continui-sincopati: trasparenza da vetrata, ecc.”. È insomma ciò che ci si aspetta da chi interroga il testo visivo: fare del visibile cosa scritta e al contempo fare della scrittura sguardo.

 

 

 

 

Gilberto Isella