L'OMBRA DELL'ANGELO

 PIER DONADINI, AURORA GHIELMINI, KALIGHAT, MADELEINE LÄUBLI, LOREDANA MÜLLER

 

UN CONTRAPPUNTO DI VISIONI IN AREAPANGEART A CAMORINO

 

presenta Gilberto Isella

Suoni in sala CANTUS PLANUS  Niccolò Castiglioni voci soprano Luisa Castellani e Barbara Zanichelli

 

tavolozza indiana fotografia di A. Tabet

“archetipo della doppia madre”, archetipo che Kali pare incorporare con il suo mito e le caratteristiche a lei attribuite. Secondo Jung, infatti, nel saggio del 1938 intitolato “Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre”, ogni figura materna è per natura ambigua, dato che oscilla tra il polo della “madre amorosa” e quello della “madre terrificante” (Jung, 83)

.La “psiche spezzata e duale” a cui fanno riferimento Mitra e Parthan (Mitra, Parthan, 1994)  prodotto storico dell'incontro-scontro tra due culture.

 

 

L’ANGELO OSCURO  Gilberto Isella

 

 

L’ombra trova il suo fondamento nel grigio. E il grigio è il colore che contraddistingue la nostra epoca, a detta del filosofo Peter Sloterdijk. Ma la sua importanza non si ferma a questo dato cronologico. Come affermava il grande Paul Cézanne, “Finché non si è dipinto il grigio, non si è pittori”. Oggi anche la figura angelica, portatrice di luce per antonomasia, getta ombre e grigiori intorno al mondo. Intesa in modo cézanniano, ci aiuta dunque a vedere.

In origine (ricordo che in greco ànghelos significa messaggero) l’angelo è una figura di mediazione, le sue innumerevoli parvenze variano col tempo e le culture, pervadono l’uomo in forma di voci e di appelli, fin quasi a coincidere con lo spiritus phantasticus, ossia il daimon che ciascuno porta in sé. Oppure si mimetizzano nella natura. Potenza dall’autonomia limitata, l’angelo opera nell’universo sempre al servizio di potenze superiori. Il paganesimo lo identifica con il Dio Hermes o Mercurio, che porta un cappello alato, stabilisce i contatti tra le altre divinità e accompagna i morti nell’Ade. Nel cristianesimo funge da principale collegamento tra il divino e i mortali. Nel Paradiso Dante assegna ai suoi angeli, distribuiti in rigide gerarchie, funzioni impegnative. Come quella di garantire la rotazione delle nove sfere celesti, ognuna delle quali ingloba un pianeta, entro il sistema cosmologio tolemaico-geocentrico. Ma non pochi angeli covano nell’ intimo, secondo diffuse leggende, la smania di potenza – chiamata hybris - nonché uno spirito ribelle. Volendosi sostituire alla maestà divina, Lucifero e la sua schiera vengono cacciati dal cielo e mutati in dèmoni. Questo per quanto concerne le religioni monoteistiche, ma anche nello zoroastrismo iranico accade qualcosa di simile: i Daeva, in rivolta contro il dio benefico Ahura Mazda, verranno banditi e considerati spiriti del male.

Al presente, in un mondo profondamente laicizzato, le ali dell’angelo si usurano, si spezzano, o meglio producono ombre sui corpi e sul suolo, ombre che progressivamente si dilatano. L’Angelus Novus di Klee, nell’interpretazione di Walter Benjamin che lo ritiene simbolo del processo storico, subisce una violenta torsione corporea, di modo che, seppur volando verso l’avvenire, i suoi occhi sono rivolti alle rovine del passato. Su questa simbolica torsione si fonda una parte considerevole della letteratura e dell’arte contemporanea, come se la lotta di Giacobbe con l’Angelo, evocata nell’Antico Testamento, ancora facesse risonare la sua eco nell’immaginario d’oggi. Il poeta Rainer Maria Rilke dice, nella prima Elegia duinese:

 

Ogni angelo è tremendo.

E dunque io mi trattengo, e serro in gola il richiamo

d’oscuro singulto. Ah, di chi sappiamo

giovarci?

 

Il poeta ceco Vladimir Holan scrive, da parte sua:

 

L’arte cominciò con la caduta degli angeli.

Ma anch’essi bevvero vino, spezzarono il pane

e dormirono con femmine mortali –

e per questo, inebriati, cerchiamo di nuovo i segnali

come su un tavolo intaccato dal coltello di Orfeo…

 

Nelle vibranti pagine del romanziere giapponese Yukio Mishima, gli angeli s’insinuano nei corpi di taluni uomini prescelti, ma, vittime dell’entropia cosmica, sono destinati alla decomposizione, trascinando con sé gli umani. Citando il testo buddhista Ekottaragāma, Mishima scrive:

 

Esistono trentatré angeli e un arcangelo, e i loro segni di morte sono cinque. Le loro corone di fiori appassiscono, le loro vesti si insudiciano, le loro ascelle esalano un fetido odore, perdono la gioia di essere, e sono abbandonati dalle vergini ingioiellate.

 

L’angelo insomma deflagra, si decompone. Eppure, grazie al suo imprinting simbolico ineludibile – restituito oggi in molteplici forme - resiste al proprio annientamento nell’immaginario umano. Perdura nella parola poetica e nell’arte. È stato il filosofo Massimo Cacciari a spiegare le funzioni che l’angelo continua ad assolvere al di là della sua ermeneutica storicizzata. L’angelo, per prima cosa, è necessario, come già affermava il poeta americano Wallace Stevens portato in esergo dal filosofo italiano nel suo libro. Voglio citare alcuni versi di questo grande autore:

 

Io sono l’angelo necessario della terra,

poiché chi vede me vede di nuovo

 

la terra, libera dai ceppi della mente, dura

caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto

 

monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare

in sillabe d’acqua; […]

 

Mentre per Cacciari

 

L’angelo fa uscire i fenomeni dalla loro apparenza, fuori della schiavitù della lettera, distogliendoli dalla loro immediata presenza per rappresentarli, ripresentarli secondo la loro verità, rendendo così loro finalmente giustizia.

 

Ciò che dà senso alle sue rappresentazioni postmoderne, vorrei sottolineare, è l’estrema flessibilità dello spazio figurale cui questa creatura dà vita. Lo testimoniano le opere esposte nella mostra che ho il piacere di inaugurare questa sera, dove il gesto artistico sembra portare in superficie ciò che definirei l’angelicità nascosta e inconscia dei rispettivi autori. Aderenti a un iconismo canonico di matrice orientale e bizantina sono i due arazzi di Madeleine Läubli – L’Angelo della montagna e L’Angelo dei Poeti - la cui matericità quasi impalpabile e le tonalità morbide operano nel segno della decantazione, e per così dire dell’evocazione nostalgica, nutrita di accensioni coreografiche e perfino mistiche. Qui un presente ingannatore lascia filtrare quell’innocenza d’antan sui cui ad esempio Klimt aveva lasciato spandere le ultime luci. Un’estrema tensione d’innocenza, quando già la figura sta declinando in un accattivante feticismo vestimentario. Come dire che l’angelo, in linea con l’estetica liberty, si fa spettacolo edonistico. Ma uno spettacolo le cui esibite scintillazioni – vedi in particolare L’angelo dei poeti - si preparano a combattere con le ombre, attraendo tutte le sfumature del grigio.

Allucinate, prorompenti da una sorta di non-luogo invisibile, sono invece le figure che ci offre il dittico Scrittura 1 e Scrittura 2 di Aurora Ghielmini. Lo scenario rastremato ci potrebbe ricordare un certo geometrismo arcaicizzante alla Jawlensky, soprattutto nel primo riquadro, ma sicuramente la memoria ci porta molto più indietro nel tempo, fino alla ieraticità orientale. Qui il processo decostruttivo concernente l’angelo è accentuato. In Scrittura 1 la sagoma pseudoangelica corrisponde infatti a una maschera inquietante affiancata da una mano. La quale, similmente a una forca dai tratti diabolici, crea una barriera minacciosa davanti all’osservatore. Nel groviglio che si sviluppa a ridosso del volto, è possibile intravedere ciò che resta di un’ala. Notiamo poi, nel secondo riquadro, volti in miniatura inseriti in un corpo sofferente. Ma saranno i corrosivi lineamenti della scrittura a determinare l’atmosfera dell’insieme.

Se considerate in rapporto alla figura angelica – facciamo al riguardo una semplice ipotesi - le sculture di Pier Giorgio Donadini esprimono un paradosso. Nel senso che i tratti assegnati per tradizione all’angelo, l’immaterialità aerea, qui si trasformano nel loro opposto, ossia la matericità assoluta. La grazia, per dirla con Simone Weil, cede il posto alla pesantezza, il cielo alla terra. Nell’opera intitolata Coppia, due figure calcaree si sovrappongono in modo greve, quasi brutale, facendo presagire un accoppiamento del tutto immanente e sconsacrato, mentre in Lumaca, entro un frammento di faggio decomposto, il moto discendente verso i terreni bassi costituirebbe, per l’angelo virtuale, un simbolico punto di non ritorno. L’agire dell’uomo o comunque di un essere animato sfiora l’inerzia dell’inorganico. Ogni trascendenza è ormai sospesa.

 

Il lavoro di Loredana Müller Donadini si svolge su una scena idealmente concomitante con quella angelica. Lontano da ogni intento mimetico, esso potrebbe alludere all’essenza pulsionale e cromatica dell’angelo impressa nel grembo di Natura. Angelus sive natura, per parafrasare Spinoza. Più che tentare improbabili proiezioni di universi alieni, l’artista ci propone soglie. I cercatori di angeli, come dice il titolo di un dipinto, sono Guardiani della soglia. Nel nostro caso, questa è delicatamente sfiorata da un grigio in conflitto con il luminoso. Vi percepiamo una sagoma antropomorfica, quasi col ruolo di sinopia di un mondo dominato dall’utopia. Mentre un universo di segno chiaramente interiore, quasi una chiave per l’inconscio, è quello suggerito da Toponomia dell’anima, generato da vibrazioni energetiche al tempo stesso soggiacenti alla luce e all’ombra. Rarefatta simbologia di presenze arcaiche innominabili.

La Dea Kali non è una singola divinità, bensì un aspetto della Maha Devi, la Grande Dea Madre della tradizione induista che raccoglie in sé molteplici forme. Nella tradizione induista, la concezione del divino è infatti duale: il lato femminile e maschile del sacro vengono visti come complementari e inscindibili l'uno dall'altro. Secondo i Veda, l'universo è governato da tre principali forze motrici rappresentate da diverse forme maschili del divino: creazione /Brahma, conservazione /Vishnu, e distruzione/Shiva. I tre principi cosmogonici, sebbene descritti come maschili, sono sempre accompagnati da una controparte femminile, definita la loro shakti, forza d'attivazione. Se il maschile può essere considerato la forma che assume il processo triadico della creazione, il femminile costituisce la sua energia. Essa è raffigurata attraverso la coppia Shiva/Parvati. Una peculiarità della mitologia induista è costituita dal fatto che gli dei non mantengono stabile la loro identità, ma la mutano a seconda degli eventi cui sono chiamati.

Questo processo è riscontrabile nelle trasformazioni assunte da Parvati, compagna di Shiva, nel mito che la vede protagonista durante la guerra più aspra tra gli dei e le forze del male. In questo particolare evento, infatti, Parvati si tramuta in Durga per combattere i demoni in modo più efficace ma, non riuscendoci, è costretta ad assumere un nuovo aspetto: quello di Kali. La narrazione della nascita della dea nera – il nome Kali deriva infatti da kalo, che significa nero e tempo – si trova nel Devī Māhātmya, traducibile come “Glorificazione della madre divina” (Jagadiswarananda, 1953), un testo sanscrito che risale al 1500 a.C., epoca in cui furono scritti i Veda. L’epopea che descrive nei dettagli la nascita di Kali si trova di seguito riassunta nei suoi passaggi fondamentali: 'Nella battaglia epica tra le forze del bene e del male, gli dei, messi in difficoltà dalla forza dei demoni nemici, decidono di riunirsi e di proiettare tutte le loro energie

su Parvati, consorte di Shiva il Distruttore. Questa si trasforma quindi in Durga, detta “la Terribile", per l'inusitato potere conferitole dalla somma delle forze di tutti gli dei.

 

Il concetto di “Doppia Madre” elaborato da Jung è utile per comprendere la singolarità del processo culturale in corso a Calcutta. Kalighat è una delle tappe imprescindibili di un itinerario turistico nella metropoli, e il visitatore si trova quindi immerso in una realtà sui generis, solitamente di difficile comprensione. Non solo, il quartiere rappresenta una specie di ritratto caricaturale della storia colonica e culturale della metropoli. Come c'è una Kali che risulta incomprensibile per il pensiero duale e filocartesiano dell'Occidente, così c'è una Calcutta ”oscura”, rimossa dalla memoria storica. La città, infatti, unico caso di questo genere in India, è stata fondata da mercanti europei e in nessun altra ex-colonia la presenza dell'Occidente è altrettanto manifesta. La “psiche spezzata e duale” a cui fanno riferimento Mitra e Parthan (Mitra, Parthan, 1994) sia il prodotto storico dell'incontro-scontro tra due culture. La Calcutta rimossa è quella scelta come capitale dell'Impero Britannico per più di cinquant'anni (1858-1912) ed è quella che, tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XXIX secolo, è stata la sede della “Bengali Renaissance”, un periodo ritenuto particolarmente dorato, di particolare armonia tra i valori coloniali e quelli bengalesi. Tale armonia tra coloni e popolazione indigena era dovuta ad un intenso sviluppo economico che

rese la città il centro più importante dell'India Britannica: a Calcutta vennero sviluppate infrastrutture e un sistema educativo incomparabile con tutte le altre città dell'Impero. La città, infatti, fu la sede nel 1827 della prima università asiatica, che attrasse studenti provenienti da tutta l'India. Calcutta divenne così il polo culturale da cui avevano origine tutte le riforme sociali nazionali come, ad esempio, l'abolizione della legge induista che prescriveva la cremazione delle donne accanto ai mariti e il diritto ad un loro secondo matrimonio. Riforme sociali d'avanguardia, quindi, per una città che soltanto cento anni prima era abitata dagli adoratori della “feroce Kali”.

 

La Calcutta contemporanea trattenga ancora delle caratteristiche oscure, ombre proprio perché difficili da immaginare e comprendere per l'Occidente. La Dea Kali continua ad animare le maggiori feste del Bengala e contemporaneamente Madre Teresa, fa parte della sua storia, è portata in pellegrinaggio in quelle “temibili” notti. La forza di Kali consiste forse proprio nell'avere delle caratteristiche “radicalmente altre” che possono essere comprese dall'Occidente.

Questo meccanismo di sdoppiamento e polarizzazione è definito nella psicanalisi junghiana come “archetipo della doppia madre”, archetipo che Kali pare incorporare con il suo mito e le caratteristiche a lei attribuite. Secondo Jung, infatti, nel saggio del 1938 intitolato “Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre”, ogni figura materna è per natura ambigua, dato che oscilla tra il polo della “madre amorosa” e quello della “madre terrificante” (Jung, 83). E’ una caratteristica tipica del pensiero orientale quella di attribuire ad un unico simbolo, ad un’unica iconografia,

aspetti che per il pensiero occidentale sono ritenuti contraddittori. Jung ritiene che nella Grecia Antica la paradossalità e l’ambiguità semantica e morale fossero insite nella natura degli dei. Non si riteneva assurdo il fatto che lo stesso dio, dispensatore di grazie, potesse scatenare la propria furia su colui che aveva appena graziato. Questa ambiguità è presente anche nella cultura giudaica e nell'Antico Testamento.

 

 

(estratto da un testo di Erica Barbiani Università Torino )

Luisa Castellani e Barbara Zanichelli - Lore e Aurora Ghielmini- Madeleine Läubli - Piergiorgio Donadini

               

 

                                                                                                                                                                NICCOLÒ CASTIGLIONI (1932-1996)

CANTUS PLANUS (1990-91)

PRIMA PARS ET SECUNDA PARS

per due soprani e sette strumenti -

 

 

 

 

 

LUISA CASTELLANI e BARBARA ZANICHELLI

testo di A. Silesius

dal Cherubinischer Wandersmann 1675

 

Prima parte

Imparate dunque, o voi uomini,

dal fiorellino di prato,

come sia possibile piacere a Dio

e contemporaneamente essere belli.

 

La più breve via verso Dio

è attraverso la porta dell'amore,

la via del sapere

vi ci conduce troppo lentamente.

 

La bevanda che Dio, il Signore

beve più volontieri

é l'acqua che per amore

scaturisce dagli occhi.

 

Del tutto incommensurabile

è l'Altissimo, come sappiamo

e tuttavia un cuore umano

può racchiuderlo tutto.

 

La più grande beatitudine

che io possa immaginare

è che si possa gustare

quanto Dio è dolce.

 

L'aurora è bella,

ma ancora più bella è un anima

che rispecchia il raggio di Dio

nella cavità del suo corpo.

 

Un cuore che nel fondo

è tranquillo come Dio vuole,

viene facilmente da lui toccato;

è il suo risuonare di liuto.

 

Noi preghiamo: "Sia fatta

la tua volontà, mio Signore e Dio!"

e guarda: egli non vuole niente,

è un eterno Silenzio.

 

La rosa è senza Perché;

essa fiorisce perché fiorisce;

essa non bada a se stessa

non domanda se la si vede.

 

O uomo fintantoché il Paradiso

non è dentro di te,

credimi pure con certezza,

che tu non ci arriverai mai.

 

O uomo non salire troppo alto,

non figurarti niente di eccelso;

la più bella saggezza

consiste nel non essere troppo saggi.

 

Nell'eternità

nessun suono è più amabile

di quando il cuore dell'uomo

cònsona a Dio.

 

Seconda parte

Ammansisci il tuo cuore

Dio non è da trovarsi

in venti violenti,

in terremoto o fuoco.

 

La via più breve

verso la vera santità

è l'umiltà sul sentiero

della purezza più casta.

 

Io sono grande come Dio,

lui è piccolo come me:

né egli può stare sopra di me

né io sotto di lui.

 

Quanto beato é l'uomo

che né vuole né sa!

Che a Dio (intendimi bene)

non dà ne lode né onore.

 

Quanto è folle l'uomo

che beve dalla pozzanghera

e lascia la fontana

che scaturisce nella casa.

 

La sapienza si trova bene

dove ci sono i suoi bambini.

Perché? (o cosa meravigliosa!)

perché essa stessa è un bambino.

 

Il nome dolce di Gesù

è miele per la lingua,

per l'udito un canto nuziale,

nel cuore un balzo di gioia.

 

Se la tua anima è ancella

e pura come Maria

deve in un attimo

essere gravida di Dio.

 

Dio è un puro nulla

non è toccato nè dal Qui né dall'Ora;

quanto più tu cerchi di afferrarlo

tanto più egli ti sfugge.

 

Io devo essere Maria

e generare da me Dio,

se Egli mi concede

nell'eternità la beatitudine.

 

Non c'è niente altro che Io e Tu;

e se noi due non ci fossimo

Dio non sarebbe più Dio

e cadrebbe tutto il cielo.

 

Con Dio essere uniti

e godere il suo bacio

è meglio che sapere molte cose

senza il suo amore.

 

 

(Traduzione di Niccolò Castiglioni)