il  c o l o r e  d e l l a   m e n t e
 
Enrico Della Torre   Loredana Müller
 
hyunnart studio
opening: sabato 24 marzo 2018  ore 18
24 marzo / 28 aprile  2108
testo di Rosa Pierno
 
 
La mostra “Il colore della mente” vede svolgersi fra i due artisti di diversa generazione, Enrico Della Torre e Loredana Müller, un dialogo ricco e fruttuoso, il quale si attua sia sul versante delle forme naturali sia sul versante del colore. La condivisione dei medesimi temi, amati da entrambi gli artisti, rende chiaro che la natura è fondamento di ogni perlustrazione interiore. Non solo perché essa è sempre interpretata - ed è presente in arte, appunto, col suo aspetto di artefatta creazione - ma soprattutto perché è proprio ciò che sporge dalla soglia dell’interiorità, quasi procedendo in un percorso inverso, al cui termine essa si appalesa come opera d’arte. 
 
La straordinaria consistenza dell’immagine tessuta da Enrico Della Torre è costruita valutando pesi, materie, luci, ombre, aree e tracciati: con ciò che struttura il reale, che regge l’impalcatura dei dettagli. Per Della Torre, scomporre in numeri primi un paesaggio vuol dire giungere a individuare entità non ulteriormente scomponibili: dunque, non alberi, colline, fiumi, erba, ma ombre, aree, contrasti. C’è qualcosa nell’ombra che spinge a considerarla esclusivamente come figura geometrica, a prescindere da ciò che la genera. Poiché proiezione, spesso parziale, di ciò che la determina, essa si disloca con forme del tutto indipendenti, si appella alla ragione in quanto si stima complementare alla forma. Il colore, a sua volta, s’impone come unico elemento che dia consistenza alle forme.
 
In Loredana Müller, anche quando la visione dovrebbe restituire l’unitarietà dell’elemento naturale rappresentato, la plasticità è annientata dal colore. L’artista cerca, prima ancora che il principio regolatore che sottende alla crescita, una scansione ritmica del tutto generale. Mette in luce il costrutto basilare del colore, che è l’elemento in cui rintracciare la presenza di tutti gli altri: non in quanto legge unitaria che gerarchizzi, facendo dipendere da esso luce e forma, ma elemento in cui rintracciare forma e luce, spazio e ritmo. La Müller costruisce lo spazio delle relazioni cromatiche come proprio ordine ideale, dando vita al loro infinito trapassare l’una nell’altra, dal culmine dell’una verso il suo nulla, cioè verso il culmine dell’altra tonalità. 
 
 
Hyunnart Studio: Viale Manzoni 85/87  00185  Roma
Orario di apertura: martedì/venerdì 16/18,30 o per appuntamento  335 5477120  pdicapua57@gmail.com

Enrico Della Torre
testo di Rosa Pierno
 
La forza concreta del colore
Scomporre in numeri primi un paesaggio vuol dire giungere a individuare entità non ulteriormente scomponibili: dunque, non alberi, colline, fiumi, erba, ma ombre, aree, contrasti. Non che sia un’astrazione, questa, che perda completamente materia, pesi e dettagli, ma nemmeno si tratta di un chiasmo in cui si voglia far convivere forzosamente astrazione con immanenza. Quando si osservino durevolmente le forme geometriche colorate, le linee a grafite e i ritagli incollati delle opere di Enrico Della Torre, si ha la sensazione che si attivi un effetto ottico simile a quello sussistente tra i colori complementari (se si fissa un colore, l’occhio restituisce l’impressione visiva del suo complementare): d’improvviso appaiono le linee dei filari degli alberi, le zolle erbose, gli angoli di cielo intenso, le ombre nerissime. Quasi una trama segreta, un’alterità insita in ciò che si vede, ma non certo una visione inconscia, sprofondata nei meandri dell’inconsapevole! La restituzione fa emergere un altrove in cui uno stesso essere ha diverse forme. È l’altrove donato dallo sguardo. Luogo diverso, dunque, da quello reale. Soltanto una strenua, infaticabile ricerca condotta sulla visione può consegnare l’essenza di ciò che è stato lungamente osservato. La straordinaria immagine, tessuta dalla maestria di Enrico Della Torre, è costruita valutando consistenze, pesi, materie, luci, ombre, aree e tracciati: con ciò che struttura il reale, che regge l’impalcatura dei dettagli. Anche il cielo viene passato al setaccio dello sguardo per  rintracciare i pigmenti - come traendo pagliuzze d’oro dalla sabbia - di tutti i cieli possibili da cui trarre quel blu assoluto in cui troneggiano gli alberi (“Alberi”, 2003). E proprio gli alberi costituiscono uno fra i tanti fili intessenti il dialogo ricco e fruttuoso che s’instaura nella mostra “Il colore della mente” tra le opere di Enrico Della Torre e quelle di Loredana Müller. Il colore, sentito come corpo, ancora prima che come forma, come segno di concretezza e di vicinanza anche emotiva con la natura, è però desunto da un visibile che è già atto mentale: percezione è, infatti, creazione culturale, artificio, frutto di mediazione tra il sé e il mondo. Questa doppia natura la si può evincere in  “Primavera”, del 2004,  una sorta di prisma proiettante varie tonalità di sfavillanti verdi come in un’esplosione di vitalità che s’irraggi nell’aere. Una tramatura di segni si sovrappone al colore, rendendo conto dei molteplici aspetti, quasi inconciliabili, che le cose possono assumere, sia per la texture delle superfici sia per la partecipazione emotiva dell’artista. Persino l’ombra, la quale esiste anche nella vivida primavera, sembra risiedere nel cuore degli elementi, mentre la fonte di luce si colloca fra i bordi delle forme e lo sfondo. Ciò che si vede non è qualcosa che entri nel soggetto; è già nel soggetto che guarda: è la sua interiorità (memoria, cultura, sogni, desideri) che va incontro
al mondo. Natura è dentro l’artista. L’essenza, che Della Torre sa cavare da ciò che osserva, consisterebbe più nella creazione di forme mediate, anziché nello scarto delle caratteristiche mutevoli riscontrate nel reale. Nel collage “Arca”, del 2003, un barcone, unico elemento colorato, scivola su tre linee ondose e sorregge una sorta di cuspide-tenda. Il colore s’incarica di rappresentare ciò che è visibile in primo piano, mentre le linee tracciate a grafite ciò che è più  distante,  o che si trova più in alto, anche se su un medesimo piano. Ribaltata la visione canonica, pertanto, un riverbero non è più il punto in cui la luce, passando da un mezzo più denso a uno meno denso, viene completamente riflessa, senza disperdersi, ma una smagliatura nel colore. I riflessi si tramutano in fori (“Prato”, 2003). Una porzione di cielo si palesa come un ritaglio proiettato sul tappeto erboso. I tronchi si stagliano contro la fitta coltre degli alberi come elementi sovrapposti, slegati dal terreno, aerei a causa della loro svettante verticalità contro la massa delle chiome, fitta a tal punto da non lasciar trasparire nemmeno un’asola di cielo. Anche una dimora nel bosco non può che riecheggiare la curva del fitto fogliame a sua volta replicante la calotta della notte, in un riverbero formale prima ancora che tonale. C’è qualcosa nell’ombra che spinge a considerarla esclusivamente come figura geometrica, a prescindere da ciò che la genera. Poiché proiezione, spesso parziale, di ciò che la determina, essa si disloca con forme del tutto indipendenti, si appella alla ragione in quanto si stima complementare alla forma. Il colore, a sua volta,  s’impone come unico elemento che dia consistenza alle forme (“Paesaggio verde-viola”, 2003). Intanto, pareti annerite si accampano imperiose, gareggiano con il caos delle verticali vegetali, delle architetture forate dei viluppi (“Paesaggio con costruzione”, 2003). Qualche elemento del paesaggio esige di essere rappresentato con l’esclusiva forza del suo moto: acqua e fili d’erba muovendosi, si desostanziano, ambendo al rigore di un ideale statuto (“Primavera”, 2004). Tuttavia, la forza attrattiva della valle, presentata in sezione, incorniciante i profili montuosi della lontananza (“Anfiteatro”, 2003), è l’unica forma ad aver diritto al colore per una vicinanza che distacca da sé ancor più fortemente ciò che si distingue a malapena sull’orizzonte. Ecco, dunque, che la funzione del colore pare quella di indicare la presenza di un primo piano rispetto al quale tutto il resto si dà per differenza: ciò che è indistinto è mentale a pieno titolo, proprio poiché non ha colore. Natura sta al di qua.
Rosa Pierno

 


Enrico Della Torre nasce a Pizzighettone (Cremona) nel 1931. Nel 1956 compie i suoi studi all’Accademia di Brera a Milano, città dove si stabilisce. Nel 1956 allestisce la prima mostra presso la Galleria dell’Ariete di Milano. Nel 1958, inizia una nuova pittura, basata su percorsi di linee orizzontali che si adagiano su superfici lievi e chiare. A partire dal 1968 il suo mondo si popola di personaggi inediti, scaturiti dalla fantasia e da un lento processo di metamorfosi: scopre l’universo misterioso degli zoofiti e delle chimere. Nel 1971 incontra Mark Tobey che già aveva apprezzato l’opera di Della Torre, acquistando un suo dipinto nella Galleria Suzanne Egloff a Basilea. Nel 1972 espone, un gruppo di dipinti alla X Quadriennale d’Arte di Roma. Nel 1979 partecipa all’esposizione La ricerca dell’identità a Palazzo Reale a Milano e nel 1982 alla mostra L’opera dipinta 1960-1980 alle Scuderie in Pilotta a Parma. Nel 1987 ha luogo una ampia retrospettiva di dipinti, pastelli e incisioni degli anni 1958-1986 allestita inizialmente presso la Neue Pinakothek di Monaco di Baviera e poi trasferita in altre città della Germania.Nel 1999 è nominato Accademico Nazionale di S. Luca a Roma. L’anno successivo Sandro Parmiggiani cura una grande esposizione antologica a Palazzo Magnani di Reggio Emilia, La rivelazione della natura. Nel 2001  viene costituito il Fondo Enrico Della Torre presso il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona. Nel 2011 è invitato alla 54° Biennale di Venezia. Per suoi ottant’anni, tra il 2011 e il 2012, gli viene dedicata in Germania un’esposizione itinerante organizzata dalla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte.

Loredana Müller

testo di Rosa pierno
Il punto di culmine del colore
Non ci sono contorni nelle opere di Loredana Müller, si tratti di acquerelli o di incisioni. È il colore che segna discontinuità e profondità diverse. E quando esso è assente, come nelle incisioni a cera molle o ad acquatinta, è il gradiente di luminosità che oscilla fra il nero e il bianco o cala morbidamente sui grigi intermedi della grafite a intercettare la presenza di differenti elementi, sempre appartenenti alla natura. La condivisione dei medesimi temi amati da Enrico Della Torre, nella mostra “Il colore della mente”, la quale vede le opere di entrambi dialogare fittamente, rende lampante che la natura è fondamento di ogni perlustrazione interiore. Non solo perché essa è sempre interpretata - ed è presente in arte, appunto, col suo aspetto di artefatta creazione - ma soprattutto perché è proprio ciò che sporge dalla soglia dell’interiorità, quasi procedendo in un percorso inverso. Che cosa sia un albero lo sappiamo solo dopo aver ritratto un albero, nel campo dell’arte, perché una volta dismesse le percezioni tattili, olfattive e visive, dai colori e dai segni sul foglio non possiamo più risalire ad esse. In questo senso riteniamo che i valori tattili, se è vero che danno conto della capacità dell’occhio di ‘tastare’ la plasticità delle forme, non sono sufficienti a ricostruire il processo conoscitivo, l’elaborazione artistica. Ciò che è in gioco nell’opera è il colore, il segno, la loro relazione, la luce, l’ombra, il piano, lo spazio. Tutte cose assolutamente astratte che appaiono, e solo sul foglio,  miracolosamente concrete. Negli acquarelli, dai ramoscelli o dai virgulti, si dipartono tonalità liquefatte, capaci di  dissolvere la forma stessa della foglia, senza per questo che si perda per la via il ritmo dei rami e dei racemi, né la sequenza verticale con la quale le foglie alternano la loro presenza sugli steli, rendendo l’immagine una partitura geometrica che cerchi, prima ancora che il principio regolatore che sottende alla crescita, una scansione ritmica del tutto generale. È così che gli elementi, anziché fissarsi in forme statiche, sembrano affette da  mutamenti continui. Con alcune prove di calibrata composizione cromatica, Loredana Müller registra i limiti della visione: sfocata, da lontano, o ravvicinata al punto da far perdere l’unità dell’immagine. Proprio evidenziando codesti limiti, l’artista  mette in luce il costrutto basilare del colore, che è l’elemento in cui rintracciare la presenza di tutti gli altri: non in quanto legge unitaria che gerarchizzi, facendo dipendere da esso luce e forma, ma elemento in cui rintracciare forma e luce, spazio e ritmo. Restiamo sempre in un’ottica soggettiva, sia se allontaniamo il nostro sguardo, sia se ci riavviciniamo moltissimo all’oggetto, fino a individuarne rugosità, avvallamenti, spigoli.
Infrangendo le classificazioni, resta visibile un solo oggetto: l’opera d’arte. Quando il segno innerva porzioni di superficie, lo fa in maniera indipendente dal colore, che, intanto, declina le aree di luminosità, fredda o calda, dello spazio. Spesso è alla tessitura del segno che la Müller assegna la valorizzazione dell’ombra. Quasi un ispessimento a tal punto fitto da far sprofondare sul fondo i retrostanti piani. Ad essi pare, anzi, affidata una funzione suppletiva, che va a sovrapporsi alla precedente immagine: un reticolo formato dalla memoria, un lacerto visivo che si sovrappone al colore, aggiungendo informazioni sul movimento, sulle trame, sulla variabilità della superficie, sulle sue articolazioni. In ogni caso, tali addensamenti non hanno la funzione di contornare un elemento, anzi, paiono sul punto di disciogliersi, nella pura vibratilità del colore. La tangibile concretezza degli elementi vegetali, se distinguibili, tendono a svanire quanto più la visione tende ad allontanarsi dal centro, a divenire parvenze impalpabili, a disegnare una prospettiva del ‘perdimento’, come indicava Leonardo, riferendosi alla definizione degli oggetti in ragione della loro distanza spaziale. La pittura di Loredana Müller ci consegna in tal modo un’immagine costruita con l’attenzione sia ai dati cognitivi che estatici. D’altronde, un elemento non è una macchia vaporosa e nebulosa, fatta a pieno pennello, con varie gradazioni d’intensità come voleva Klee? Seguiamo la costruzione, in alcune carte, di un tronco d’albero o delle sue radici a grafite: la superficie curva del tronco appare tappezzata da riquadri di grigio: anche quando la visione dovrebbe restituire l’unitarietà dell’elemento naturale rappresentato, ci accorgiamo che, ancora una volta, la plasticità è annientata dal colore. Che solo un’intensificazione dei grigi dà conto della presenza dell’ombra, mentre nega la sua partecipazione alla costruzione del volume. La Müller costruisce lo spazio delle relazioni cromatiche come  proprio ordine ideale, dando vita al loro infinito trapassare  l’una nell’altra, dal culmine dell’una verso il suo nulla, cioè verso il culmine dell’altra tonalità. Colore, quando si scrolli anche la zavorra della rappresentazione, si configura come elemento che tassella lo spazio, esclusivo gradiente di luminosità, relato alla presenza degli altri colori, dato di assoluta astrazione, se non fosse che il colore è legato alla parte più intestina di noi, ancora alla natura.
Rosa Pierno


Loredana Müller nasce a Mendrisio nel 1964 in Ticino dove vive e insegna, ha  studiato allo CSIA dove segue le lezioni di Massimo Cavalli e Max Huber. Si diploma nel 1988 all’Accademia di Belle Arti di Roma e risiede a Roma per vent’anni. Espone in Italia, in Francia, in Svezia, in Romania e in Svizzera. Rientra in Ticino nel 2000. Apre la Galleria Pangeart (2002-2006) a Bellinzona.  Cura le cartelle calcografiche “Omaggi e confronti” contenenti lavori di trenta artisti.  Avvia nel 2006 la Scuola Pangeart di Arti Applicate a Camorino. Nel  2007 collabora con AR Officina d’Arte Contemporanea a Milano.  Nel 2008 cura le cartelle calcografiche di AR e della Galleria Pangeart.  Nascono le Edizioni Pangeart in collaborazione con artisti e  poeti. Nel 2009 fonda le edizioni ramo radice con M.R. Valentini. Dal 2009 collabora con la Galleria Stellanove di Mendrisio.  Collabora con  L.I. Art Roma.  Dal 2010 al 2015 si susseguono esposizioni di pittura e d’incisione calcografica. Nel 2015 apre il centro culturale areapangeart, che lavora sui vari linguaggi delle arti. www.areapangeart.ch Sull’opera di Loredana Müller Donadini hanno scritto: Rosa Pierno, Gilberto Isella, Maria Rosaria Valentini, Maria Will, Claudio Nembrini, Franca Verda Hunziker, Alessandro Fieschi, Anna Marrone, Ilaria Bignasci, Vittore Castiglioni, Giuseppe Curonici, Beatrice Balzarini, Carole Haensler, Michele Sottile, Carlo Fabrizio Carli, Laura Turco Olivieri,  Marco Falciano, Gabriele Simongini, Piero Dorazio, Nato Frascà, Enrico Sirello, Achille Pace, Ada Donati, Enzo Brunori.