Guido Strazza di Rosa Pierno

 

 

 

Sono le stesse parole dell’artista ad avvertirci che il segno vale per se stesso, non ha nulla della realtà esterna, essendo il prodotto della nostra stessa natura. In questo senso anche i suoi insetti paiono provenire esclusivamente dalle ragioni del gesto e della memoria (natura completamente interiorizzata è trasformata).

 

 

 

L’indagine di Strazza prosegue, incentrando la sua attenzione sul segno, spesso tratteggi ispessiti dallo sfregamento ripetuto, i quali apparendo materici, dando la sensazione che in essi si può ulteriormente scavare, e sulle superfici che accolgono strutture geometriche sulle quali la luce/colore plana. Sono ricerche sulla luce intercettata da strutture. La luce se vi scorre, accompagnando le ondosità delle griglie, allo stesso tempo consente loro di apparire o sparire.

 

Il segno può darsi senza luce e senza materia. Di sicuro non si dà senza il gesto. Pertanto esso non è disgiunto da nessuna delle connotazioni con cui può accompagnarsi.

 

 

 

Con la serie “Segni di Roma - Colonna”, 1981, il segno diviene più vibratile, intensamente espressivo, coniugato com’è ai pavimenti cosmateschi, alla consunzione delle superfici marmoree: soggetto alla rifrazione, ai lucori che a ogni ora del giorno si abbattono sugli antichi monumenti. È un bagno negli creme cromatiche, non solo nelle calcinose rovine, nel pietrisco, nelle sgraffiature, nella porosità della pietra, ma nella preziosità degli impasti cromatici. Si smaterializza persino la pietra nell’immersione lucorosa che sfalda visione e memoria al medesimo tempo. Una cascata di pigmentate pietruzze esplode negli occhi, ridiventando malta salvifica.

 

 

 

Addentrandoci negli anni Novanta, il segno registra sommovimenti tellurici, individuando sulla carta camini magmatici, focolai e fratture. Ora tale segno può dialogare anche con reticoli più ordinati, con lamine che formano incroci tridimensionali. Non hanno la medesima nascita, ma s’intercettano come entità coesistenti.

 

 

 

La serie degli “Archi”, 1998, e degli insetti è una raffinatissima individuazione di analogiche rassomiglianze, di cui il caso pretende la paternità. Il gesto, e soltanto esso, è capace con il suo stesso agire, di creare a prescindere da un’intenzione rappresentativa.

 

 

 

Gli “Orizzonti” del 2001 tessono la trama dell’intercettazione di orizzonti interiori, di stesure paesaggistiche: il legame con la natura, per Strazza è sempre agganciato dal segno. Nulla si dà senza il segno. Verrebbe da dire nulla si crea e nulla si distrugge se non col segno.

 

 

 

Il colore agisce come dedotto dalle forze che agiscono sul foglio, attraverso, dunque, una sorta di gravitazione addensante, attrattiva di variazioni cromatiche che si lasciano intercettare come in un dispositivo. Il foglio ha molteplici gradi di libertà e il colore varia a seconda dell’asse o del piano sul quale è intercettato.

 

 

 

Che siano le superfici individuate esclusivamente dal colore ( “Orizzonti, 2004, tempera e carboncino su carta) il quale crea cornici di contenimento della luminosità intercettata proprio da codesti schemi, sorta di rilevamento non geometrico, ma meccanico, oppure slabbri di colore, che mimano tagli nella tela, ferite sanguinolente o sciabolate di luce, o traiettorie luminose in blu oltremarini, tracce, insomma, di spostamenti o ancora cicatrizzazioni della superficie che si richiude con una sutura pigmentosa, il gesto che traccia il segno è l’ossessione che da sola serve a tracciare la parte non esperienzale del mondo. No, non è pittura concettuale, quella di Strazza, ma è strumento e, al contempo, risultato della ricerca, setaccio attraverso il quale vediamo ciò che non sappiamo.

 

 

 

"L'astrazione può essere intesa come linea di fuga rispetto alla concretezza del tempo storico, della vita, della realtà umana.

L'astratto ( abs-tractum) etimologicamente è il separato, il risultato di un procedimento riflettente che produce opposizione e cristallizza i termini della scissione."

 

" Riflessioni al riguardo del peculiare intreccio tra aspetti teorici e pratici…" riflessioniL.M.

 

Strazza, maestro imperfetto di Giuseppe Appella

 

Finalmente un grande museo rende omaggio al più appartato maestro dell'arte italiana del Novecento: Guido Strazza. Dal secondo futurismo allo spazialismo: una vita trascorsa alla ricerca del segno e dell'emozione

 

Davvero pochi gli artisti cui è possibile e giusto assegnare l’abusato titolo di maestri. Perché l’arte non è più lavoro di bottega. A volte factory, fabbrica dove la creatività si serializza, un prodotto pop da catena di montaggio come succedeva ieri nello studio di Andy Warhol, e oggi in quello di Jeff Koons, ma non più luogo dove si trasmettono tecniche e saperi. Ma soprattutto perché per insegnare ad inseguire il miraggio mercuriale dell’arte bisogna continuare a darsi disciplina, apprendere, mettersi in discussione, rinnovare punti di vista e modi d’approccio, anche se il mercato delle quotazioni e del gusto e la critica modaiola non ti vengono dietro, vorrebbero inchiodarti al già fatto. Doti che Guido Strazza ha coltivato per tutta la vita e che a 94 anni compiuti continua a praticare, ogni giorno in bottega, allievo di se stesso.

 

Il titolo di maestro l’ha conquistato sul campo: dirigendo l’Accademia di Belle Arti e l’Accademia di San Luca, e tenendo per anni corsi alla Calcografia di cui in tanti, lui per primo, hanno fatto tesoro. Ma era un titolo dimezzato, che la critica tributava soprattutto alla sua abilità grafica. Solo ora un museo pubblico gli consegna la meritata corona a tutto tondo di gran maestro del Novecento italiano, ripercorrendo con una grande personale, la prima personale, l’intero arco della sua carriera. È la Galleria Nazionale di Valle Giulia che trova in questa antologica, quasi fuori tempo massimo, il modo di riparare i torti di una lunga disattenzione. E di sdebitarsi, come farà tra breve anche l’Istituto per la Grafica: alla prima Strazza ha deciso di donare tutte le opere in suo possesso, una cinquantina, che verranno esposte; al secondo 1200 lastre, l’intero repertorio delle sue incisioni. Senza porre vincoli e condizioni come fanno tutti o quasi gli altri artisti. Preoccupato soltanto, senza figli e senza eredi, ora che sente avvicinarsi l’uscita di scena, di non disperdere i lavori che racchiudono e cuciono insieme tutte le sue lezioni di mestiere e di vita. Prima fra tutti quella sintetizzata dal titolo, con cui il curatore Giuseppe Appella battezza la mostra, in cartellone fino ad aprile: Ricercare.

 

Ricercare cosa? Il segreto cui Guido Strazza ha consacrato la sua esistenza è quello dei segni. Il segno come chiave d’accesso all’essenza stessa della Natura: «Ammiri un paesaggio – spiega con quel suo sorriso cortese ed esigente dietro cui si nasconde – il mare infinito, una campagna piatta, una montagna, un cielo di pioggia… E cosa stai contemplando, quale ricordo ti porterai appresso se non una trama di segni, che poi certo devi imparare a depurare, a isolare, a riproporre per arrivare dentro di te e dentro la tua visione?».

 

Quello del segno e un traguardo mentale e una vocazione istintiva che subito gli si rivela. Un percorso d’avvicinamento che la mostra, integrata da una decina di prestiti di collezionisti per confezionare una vera antologica, documenta tappa dopo tappa. Sviluppando ed esibendo in vari corposi capitoli le esperienze di gestazione. L’incontro decisivo con Marinetti che gli addita la via maestra, una miscela di segni e di movimento, del futurismo. E della sua vita: ha studiato e cominciato a lavorare da ingegnere, ma capisce che è nell’arte che deve trovare il suo futuro. Marinetti gli trasmette persino la passione per il volo, la meraviglia della vista dall’alto, che asseconda con un brevetto di pilota. E traduce nei suoi primi lavori di rodaggio, un dosaggio ancora incerto ma suggestivo di linee e colori. Ecco due preziosi fogli che sembrano usciti dall’album di un vero aviatore futurista. Ecco ancora più eloquente un quadro inizio anni ‘50 che dedica a Paracas, a quel deserto del Peru centrale di fronte all’oceano dove gli indios hanno inciso a solchi sul terreno una dilatata mappa astrologica, che solo dall’alto può essere ammirata: non sono quegli antichi enigmatici disegni il tema che raffigura, ma la memoria che quello spettacolo cifrato gli condensa dentro, sommandosi ad altre. Poco dopo, ecco una sua cartella grafica in cui con maggiore consapevolezza e concisione riassume in un alternarsi di bianco e nero, vuoti e pieni, e senza scivolare nel realismo, le emozioni di due luoghi leggendari, il Machu Pichu e Cuzco.

 

In quei cinque anni di soggiorno da impiegato in Perù Strazza ha già impugnato come chiave d’accesso al mestiere d’artista la scelta dell’astrazione, che poi tornato in Italia perfezionerà in diversi e lunghi soggiorni. A Venezia e a Milano. Sulla Laguna si addestra all’informale a fianco di Vedova e Tancredi. In Lombardia l’amicizia con Lucio Fontana e Castellani gli apre le inedite fughe verso altre dimensioni dello spazialismo. Fieno che mette in cascina e poi rielabora a modo suo, adatta alla sua esigenza rigorosa di sintesi e purezza.

 

Ancora più decisivo il trasferimento a Roma, dove ormai vive da mezzo secolo. Maurizio Calvesi apre a lui e ad altri artisti il laboratorio della Calcografia nazionale che dirige: si facciano le ossa liberamente con lastre e torni, ognuno a suo modo, producendo quello che vuole. Guido Strazza è quello che più di tutti mette a frutto quella scuola di rigorosa applicazione e anarchia: la apre da autodidatta e pochi anni dopo torna a varcarla, invitato a tener corsi come maestro. Nei solchi di bulino dell’incisione ha scoperto il suo alfabeto d’artista. Il linguaggio che da forma e vita a uno stupefacente campionario di capolavori.

 

Come la serie inizio anni ’70 sui Paesaggi olandesi in cui raggiunge il culmine della sua creatività. Un infinito piatto di spazio e tempo dove lo sguardo tocca senza ostacoli il mistero dell’orizzonte, può catturare senza filtri le variazioni di luce. E tradurre emozioni e ricordi in linee pure, scolpire l’ombra in fitte trame leggere come ricami. Conquiste di stile che non abbandonerà più e caratterizzano anche le sue prove di pittore. Il colore come un segno in più, una vibrazione in più: la realtà che distilla sogni ed emozioni di intensità assoluta senza perdere l’ancoraggio con il pensiero. Indimenticabili almeno una decina di tele sgranate lungo il percorso che accompagnano questa rivisitazione fino a oggi. Tra tutte segnaliamo quelle che traducono in una visione di mistiche geometrie la caccia ai fantasmi della luce.

 

Un altro artista si sarebbe fermato lì. Ma Guido Strazza è un poeta che non ha mai toccato il punto fatale dove il tuo talento finisce e diventa maniera. Ha continuato a sperimentare, cercare, cimentarsi in territori sconosciuti. Dando vita ad altri capolavori, altri fascinosi colpi d’ala. Come nella serie più recente in cui ha tentato di formulare un nuovo cifrario di linee e di segni, utilizzato per interpretare il fascino segreto di Roma e delle sue stratificazioni di forme e di storia. Capitelli, architettura, tracce sui muri, mosaici.

 

Rischiando senza problemi anche il passo falso e il naufragio, come in altre tele in cui ha provato a dilatare in aureole colorate le memoria e le curve dei pavimenti cosmateschi. Quasi un ritorno all’indietro, ai modelli del divisionismo e gli esperimenti visivi di Russolo e Boccioni. Lui per primo non se ne dice affatto convinto. Ma ha voluto che comunque in mostra ne restasse traccia. Un artista ammalato di perfezione sarebbe un cattivo maestro.