pastelli in omaggio ai poeti

 

LE CARTE DI

 

GIULIA NAPOLEONE

 

 

 

 

1. " Alla fine è questo cielo della sera quello che resta " Claudio Damiani

 

 

 

 

2. " Ombra o radice " Maria Clelia Cardona

 

 

 

3. " E come l'acqua andare verso il mare " Pietro De Marchi

 

 

 

4. " Pietracqua" Gilberto Isella

 

 

 

5. " L'eternità " Fabio Merlini

 

 

 

6. " Liberare la vita...in un istante morire " Osvaldo Coluccino

 

 

 

7. " Non c'é nulla da temere nel bianco" Maria Rosaria Valentini

 

 

 

8. " Cadere come celestiale corpo cade" Rosa Pierno

 

 

 

9. " Sembra una pagina che non hai scritto " Marco Vitale

 

 

 

10." Non so se la cosa viene dall'alto o dal basso " Rita Iacomino

 

 

 

 

11. " Margini di splendore" Roberto Rosi Precerutti 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE SCULTURE IN PIETRA

DI FRANCOIS LAFRANCA

 

 

 

 

1) LOSANGE-AMPHI I 2017-1

 

 

2) HONEAKOPE II 2001-2 Ollare su marmo 

 

 

3) SFERA SPACCATA II 2022-4 Ollare-Rovana 

 

 

4) TAMO 1986-3 rip. 2023 Amphibolite ( 4 elementi)

 

 

5) CUBO SPACCATO II 2022-9 Amphibolite 

 

 

6) BACINI 2005-4 Amphibolite su Beola di Linescio 

 

 

7) LOSANGA-FARFALLA 2017-3 Granito su Amphibolite 

 

 

8) QUATTROPEZZI 2006.1 Ardesia su Ollare cm 20 X 45 X

 

 

 

9) SASSO LODANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE CARTE DI

LOREDANA MÜLLER

 

 

 

A " PIEGATA " 2021 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta

 

B " TRASPARENZA" 2022 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta 

 

C" ACQUA" 2022 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta 

 

D " FERROSA" 2022 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta 

 

E " ELIOPIETRA" 2022 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta f

 

F "FLORESCENZA" 2022 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta 

 

G " NOTTURNO 1" 2023 calcografia, maniera nera a punta , colore 

 

H" NOTTURNO 2" 2023 calcografia, maniera nera a punta , colore 

 

I" IMBIBITA" 2021 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta 

 

J" SOFFIO" 2021 inchiostri da ossidi di cromo e pastello su carta

 

K " CRESCITA" 2021 inchiostri da ossidi di cromo e pastello su carta 

 

L" CRISTALLI" 2021 inchiostri da ossidi di ferro e pastello su carta (piano terra ) 

 

M" CRISTALLI TURBATI" 2021 inchiostri da ossidi di ferro su carta (piano terra ) 

 

N" VOLTO D'ACQUA" 2021 inchiostri da ossidi di ferro su carta (piano terra ) 

 

 

 

 

 

 

PIETRACARTA

testo

Vincenzo Guarracino

 

edizioni areapangeart 2023

 

Dialoghi di camorino tra pietra e carta

“Sei tu fra quelli che guardano o fra quelli che mettono le mani in pasta?”, si chiedeva il filosofo

Friedrich Nietzsche e la domanda è quanto mai pertinente ogni qualvolta ci si trova di fronte a

esperienze e figure da inquadrare e definire.

Chiunque voglia diventare “grande”, chiunque voglia uscire dall’in-fanzia, dall’assenza cioè di

parole e andare oltre la “scuola”, sa che deve leopardianamente fare “esperienza di sé”, deve

mettersi in gioco: deve “mettere le mani in pasta”.

Con la materia del proprio operare e con gli altri, con l’Altro: in un dialogo costante, intermina-

bile. Senza limitarsi a “guardare” soltanto.

Solo accettando la sfida delle cose e degli Altri, solo sporcandosi le mani con la vita e le sue

contraddizioni, l’artista e chiunque pratica con l’arte sarà davvero sé stesso.

Ecco, il problema è proprio questo: il davvero, ossia la volontà di procedere dal vero, a partire

cioè dalla verità di sé stesso e del proprio rapporto con il mondo, per il quale si deve nutrire un

amore assoluto, totalizzante.

Solo così, amando e amandosi, si diventa se stessi: si caratterizza e ci si caratterizza rispetto

all’Altro e agli altri, delimitando i confini della propria inassimilabile proprietà, così da poter

dire col poeta Sandro Penna: “Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è di-

verso / essendo egli comune”.

Mi è venuto di fare questa considerazione di fronte al mondo di immagini e forme, al “paradi-

so” di suggestioni che si apre ogni qualvolta si incontrano esperienze che si confrontano, ogni

qualvolta segni-forme-colori reciprocamente si specchiano per riconoscersi e darsi un’identità,

avendo messo ciascuno consapevolmente per proprio conto “le mani in pasta”, senza timore di

sporcarsi davvero....

 

Per Giulia - Vedere dall’alto

C’è un passo del celebre dialogo platonico Fedone, in cui Socrate, dialogando col pitagori-

co Simmia, descrive la sfera terrestre quale apparirebbe a chi per avventura la contemplasse

dall’alto, dallo spazio. “Amico mio – dice il filosofo ateniese al suo interlocutore tebano – si

dice che la vera terra a chi guardi dall’alto presenti la figura di quelle palle di cuoio a dodici

spicchi, variegata, distinta a colori, di cui anche i colori di quaggiù, quelli di cui si servono i

nostri pittori, sono appena delle mostre. Lassù tutta la terra dicono che sia colorata di siffatti

colori, ma ben più brillanti e puri dei nostri, giacché in qualche luogo essa è purpurea e meravi-

gliosa di bellezza; in qualche altro ha il fulgore dell’oro; e dov’è bianca, è più bianca del gesso

e della neve; e così del pari variopinta d’altri colori, più numerosi e belli di quanti mai se ne

siano visti da noi...”Ho citato Platone, non perché quello che dice specificamente nel brano citato debbano essere necessariamente presenti alla cultura e agli intendimenti di Giulia Napoleone.

Ma solo perché, come capita sovente a chiunque, le cose che vediamo e percepiamo non ven-

gono mai da sole, lievitano ed entrano in un nostro cortocircuito di sensibilità che le fa apparire

come rivelazioni di storie possibili, al di là di ogni confine e diversità culturale.

Scenari, dunque, di una visione dall’alto, ciò che nelle carte di Giulia appare tra segni e forme:

immagini in cui a un’osservazione progressivamente ravvicinata l’occhio mette a fuoco distin-

guendo colori e segni, forse sogni, gli uni e gli altri perfettamente integrati, come tessere di un

mosaico infinito o maglie di una rete, a formare la compatta sembianza di una sorta di fantastica

cartografia del mondo, che potrebbe apparire soltanto un fatto episodico e casuale se non fos-

se che, ripetendosi costantemente, reclama una sua precisa e specifica riconoscibilità, sia per

quanto riguarda l’immagine che per quanto riguarda il suo processo costruttivo, la prassi o per

meglio dire il suo linguaggio, che, benché costituiscano un tutto inscindibile, pure richiedono

separatamente delle puntualizzazioni. Come appare evidente, infatti, l’opera si costruisce e struttura attraverso un procedimento operativo fatto di minuscole addizioni, di stratificazioni progressive di minuscole, appena percettibili forme geometriche (punti e cerchi e simboli), segni-colore, governati da una misteriosa ma evidente tensione matematica in espansione, che pazientemente si compongono in una fitta trama cromatica, e in cui magari si possono anche individuare e riconoscere sempre più fre-

quentemente perfino paesaggi fantastici, fantasmi organici e frammenti di figure.

C’è, insomma, alla base una forma geometrica, che al di là della sua specificità decide la struttu-

ra del processo pittorico: dapprima punti, ossia le forme più piccole consentite dalla geometria

ma sufficientemente grandi da garantire il formarsi e il crescere di una struttura; cerchi, poi,

come atolli o punti neri di un universo minaccioso in espansione dalla cui smania niente può

salvarsi. È questo l’elemento che insiste nelle carte di quest’artista, una forma di universale

evidenza, punto, linea o cerchio che sia, che si riproduce e prolifera moltiplicandosi come una

cellula impazzita, fino a occupare e strutturare, in varie fogge e dimensioni, tutta quanta la

superficie: dalle dimensioni più piccole e pressoché puntiformi a quelle via via più grandi che

fagocitano le minime inscrivendole e inglobandole, i cerchi reggono e conformano la struttura

stessa dell’opera, di ogni opera, non di rado lottando contro la tumultuosa insorgenza di ele-

menti, onde, che interferiscono con altre forme, secondo moduli schematici che si dilatano fino

ad occupare interamente lo spazio.

Il risultato è una rappresentazione vagamente onirica e simbolica, trasfigurante e visionaria,

potenziata com’è dalle parole dei testi poetici che di volta in volta l’accompagnano, ma senza

alcuna inclinazione al sublime, in cui tutto si basa su un gioco ben equilibrato ed armonico tra

pulsioni espressive e le leggi dell’operare artistico. Che queste forme aggregandosi e incontrandosi, come in un fatale clinamen lucreziano, riescano a dar corpo a quelle che potremmo definire delle autentiche cosmogonie geometriche e cromatiche, in grado di produrre in chi guarda un intenso piacere estetico, è un fatto che testimonia la capacità dell’artista di suscitare le forme del pensiero come fatti descrivibili, sagomandoli e plasmandoli secondo una misura mentale, la propria, che ha come approdo un ambizioso progetto, quello di conformare demiurgicamente il tutto secondo le ragioni dell’io, per forza di pittura. Si diceva prima dell’importanza del “linguaggio”. A dare forma conveniente a siffatta ambizione è, dunque, la ripetitività ossessiva del gesto dell’artista, l’accumulazione metodica e inesorabile, che trova il loro posto congruo e conforme ai segni-colore, facendone la sostanza e l’anima del quadro: segni-colore, significanti, che nello scampolo che occupano del quadro sono cifre decorative indotte alla presenza dall’orrore del vuoto, motivi che significano soltanto se stessi e realizzano nella loro ripetizione e riproducibilità la ragione e il senso del loro proprio mostrarsi, ma al tempo stesso cercano nella collisione e fusione con gli altri un significato più completo: un’astrazione, insomma, se questo termine non fosse di per sé già fortemente connotato e abusato: ma astrazione che riflette un sentire connaturato all’artifex, che replica e moltiplica sulla superficie la propria volontà di espropriazione dello spazio assegnato e definito, la decisione di scrivere (e di scriversi) per affermare il proprio esserci, come flagranza stessa dell’io, attraverso l’estensione del proprio braccio nel pennello e di questo nella sua punta acuminata o carezzevole di colore.

 

Per Loredana - Impronte

Epifanie davvero della forma, del colore, quelle cui le “Impronte” di Loredana, raccolte da una

Natura benefica e felice nella loro evidenza e matericità, ci mettono di fronte ... Cos’altro è in

fondo un’epifania, se non ciò che appare e si rivela all’improvviso in una forma, in un colore,

colti inaspettatamente nell’araldica stessa della Natura ad ogni passo, da saper riconoscere? Ciò

che appare e acquista consistenza sulla pelle della carta? Phainòmena, “fenomeni”, che si mo-

strano e si fissano nella retina incantata dell’osservatore provocandone la memoria più profonda

e suscitando improvvise impressioni e associazioni, immagini e segni di un qualcosa d’altro e

misterioso, che hanno il potere di far lievitare e percepire la realtà circostante in una maniera

del tutto nuova e imprevista, assolutamente soggettiva, secondo il principio della somiglianza.

“Natura, dea Madre del tutto, Madre dai molti accorgimenti, celeste, augusta, divinità creatrice,

Signora /.../ di tutte le cose tu sei padre, madre, nutrice e allevatrice / tutto è in te, poi che sola

crei queste cose...”C’è nell’antico inno orfico a Physis, alla Natura, un empito religioso che incanta e commuove:un empito che vibra e si trasmette intatto con tutta la sua forza di persuasione ogni qualvolta citroviamo di fronte alle sue epifanie, alle forme diverse del suo apparire, di fronte a una foglia,a un filo d’erba, a un arbusto, a una traccia, a un’“impronta” ...

Il risultato è un brivido, il soffio di un mistero che si ripete, una visione in cui un’ordinaria

evidenza si trasforma in un’entità “altra” per lo spazio di un attimo irripetibile: “Natura, dea

Madre del tutto, Madre dai molti accorgimenti, celeste, augusta, divinità creatrice, Signora...”.

Natura naturans, insomma, Natura che crea incessantemente sé stessa, in un infinito processo

auto generativo: “Tu che volgi in eterno vortice impetuosa corrente, / onniflua, circolare, che

vivi / in molte forme”. Come un’eterna matrice, Lei, la Natura, Madre “dai molti accorgimenti”, dispiega in ogni dove le sue forme cariche di suggestione e di mistero: l’essenziale è saperle intuirle e riconoscere,

come germi e gemme di miracolose fecondazioni: come fa l’artista, come fa Loredana, cercan-

dole e raccogliendole, per custodirle nelle sue Chartae....

Un corpo morto di pietra che si anima in un bagliore divino, la scorza di un albero che si apre e

lascia trasparire la linfa essenziale che la rende viva e fa dire a Tiresia che da quel punto in poi

la sua vita cambia per sempre, definitivamente: lo scarto, il resto, il detrito, l’inerte e perfino

l’apparentemente morto, rinascono e trionfano. Come l’Araba Fenice che risorge a nuova vita

dalla propria cenere, dal suo niente. Frammenti di vita che rifiutano la loro sostanza etimologica: non più frammenti, se il latino frangere li vuole condannati a un ordine violentemente spezzato, rotto, per mettere a fuoco ciò che è vitale. Una scheggia, un unico, minimo tassello, finalmente si incendia e rivive, vivente virgulto che parla, non diversamente dagli sterpi della Selva dei suicidi del canto XIII

dell’Inferno dantesco. Forme cangianti, insomma, che soltanto dormivano lievitando in attesa di apparire, mondi da cogliere e fissare nell’attimo, immediatamente precedente alla loro scomparsa, come trionfo e consacrazione dell’istante: “moment in and out of time”, “attimo nel tempo e fuori del tempo”,

in un teatro di apparizioni, come virgiliane umbrae senza voce e bisognose di espressione, be-

nedicendo il segno e il colore della mano che le fa rivivere.

Semina rerum, attimi e atomi di bellezza perturbante e provvisoria, certo, ma tali che richiedono

assoluta complicità, abbandono: la complicità di uno sguardo che si innamora della sua poesia.

È proprio questo che si fissa, trasferendosi dall’occhio alla mano dell’artista in un’impronta, in

un calco, sulla carta, meglio di qualsiasi altra espressione artistica, in una forma strettamente

legata, sì, al passo del tempo ma anche proiettata a dare il senso del mistero che si cela in ogni

forma e in ogni immagine. Pronta e disposta come un seme a lasciarsi fecondare e germogliare.

 

Per François - Uovo

Forme obsolete, oblunghe, ovoidi: grumi di pietra, che l’intelligenza della mano ha modellato

imprimendo nella materia un Progetto tutto già inscritto nella mente, il disegno di un “qualco-

sa” che con energia di volta in volta scabra o sinuosa risveglia un complesso nodo di pulsioni,

un rapporto senza tempo con bisogni, desideri, timori, che nella storia di ognuno delineano

un’immagine mitica essenziale.

Materia e forma compongono così un messaggio di arcane risonanze, rinviando a qualcosa di

eterno eppure familiare, alla durata e insieme all’istantaneità: ad una figura circonfusa da un’au-

reola sacrale e investita di un complesso nodo di private emozioni e sentimenti.

Presenze, grumi di un sogno, insomma, che ha l’età del pensiero e si proietta all’esterno col

linguaggio araldico del simbolo: non allegorie, ma simboli. Il simbolo è un modo di guardare, una prospettiva aperta sul mondo, per cui tutto è filtrato soggettivamente attraverso un’angolazione peculiare all’esperienza esistenziale di ciascuno, al “mito” individuale, a quello che Charles Mauron definisce la “metafora ossessiva”. Al contrario, l’allegoria è una costruzione intellettualistica, una “ristrutturazione” della realtà, per la quale si indica un omologo e un referente in qualcosa d’altro.

Cosa fa François Lafranca con queste sue Presenze? Le intitola a elementi funzionali, ma quel

che più conta, anche dal punto di vista concettuale e simbolico, fa ricorso a un materiale, le

rocce basaltiche del territorio, su cui opera con tagli netti o appena percettibili ma tali da mo-

dificarli in funzione del Progetto, quasi a non volerne profanare la sostanza, a significare un

rispetto verso la simbolica sacralità inscritta nella loro forma, di volta in volta, a seconda delle

circostanze, intagliata, levigata, o grezza. Le pietre di Lafranca non sono come la Grande Madre, non rappresentano la Grande Madre: sono la Grande Madre.

In un passo bellissimo delle Metamorfosi, il poeta latino Ovidio racconta di Deucalione e Pirra,

che, unici superstiti del Gran Diluvio, si rivolgono all’oracolo per conoscere il proprio futuro

e propri compiti: Mota dea est sortemque dedit: Discedite templo / et velate caput cinctasque

resolvite vestes / ossaque post tergum magnae iactate parentis (“Si commosse la dea e diede

questo responso: Lasciate il tempio, velate il capo, sciogliete le vesti e gettate dietro le spalle le

Ossa della Gran Madre”). Cosa debba intendersi con ossa della Gran Madre, Ovidio lo spiega poco appresso. “La Grande Madre è la terra: le ossa credo che siano le pietre” (Magna Parens terra est: lapides in corpore terrae / ossa reor).

Ossa della Grande Madre, dunque, le pietre: dal loro lancio dietro le spalle, da parte dei due

fortunati sopravvissuti alle acque del diluvio, sarebbero nati gli umani, la nuova Umanità.

Come dire che le pietre sono la Grande Madre e l’Umanità stessa reca scritto nel proprio corpo,

come un’infrangibile memoria biologica, il proprio destino: un destino di durata, un destino di

conoscenza: portano in sé la Grande Madre, un modello essenziale, un archetipo.

Carl Gustav Jung, che ha studiato i meccanismi profondi della coscienza, vede in questa figu-

ra della pietra l’immagine del Sé, di un Sé che si cerca e si individua negli anfratti più riposti

dell’anima: la “totalità psichica dell’uomo”, il suo stesso principio di individuazione.

Un simbolo antico, eterno, dunque.

Nell’antica Roma, ad esempio, sul monte Palatino, veniva venerata una pietra nera, il celebre

Lapis niger, dall’indecifrabile iscrizione bustrofedica, concernente forse misteriosi riti in onore

della Magna Mater. Non diversamente, a Delfi, in Grecia, o a Eliopoli, in Egitto, le pietre ve-

nivano investite di un potere simbolico straordinario: a Delfi, una pietra costituiva addirittura

l’omphalos, il centro stesso del mondo. Ecco, è in questa scia che si colloca Lafranca, con una forza che va oltre l’immediata referenzialità dei titoli che assegna ai suoi “manufatti”, alle sue totemiche Presenze che parlano la lingua arcaica dei desideri e delle paure dell’inconscio di tutti di fronte al mistero della materia e della vita.

 

Vincenzo Guarracino