LUNED`19 FEBBRAIO AD AREAPANGEART -

UN DIALOGO DINA MORETTI - LOREDANA MÜLLER

PRESENTA - GILBERTO ISELLA -

SUONI IN SALA -  EDITH SALMEN -

ORE 19 A CAMORINO

 

 

 

 

 

 

Dina Moretti e Loredana Müller “Nel segno del criptoesistente”

 

-Camorino 19 febbraio 2018- testo di Gilberto Isella

 

 

 

Una mostra che intende porre a confronto due artisti, diciamo una mostra concepita a specchio, ha senso a determinate condizioni. La prima è che tra i due artisti esistano sufficienti elementi in comune per giustificare un discorso critico produttivo. Non parlo di concordanza a ogni costo, perché anche una relativa discordanza progettuale e stilistica può diventare oggetto di interesse. Il problema ovviamente si semplifica non poco allorché i due universi creativi presentano affinità riconoscibili. È stato il caso del panorama incrociato proposto qualche anno fa per Cesare De Vita e Loredana Müller. Anche nella presente occasione, la coppia Dina Moretti e Loredana lascia emergere zone di convergenza tali da poter supporre un paradigma condiviso. Un paradigma che, se mi si concede il neologismo, tocca la questione del criptoesistente. Cosa intendo dire? Per criptoesistente – la mia è solo un’ipotesi di lavoro – intendo quel territorio sommerso (pre-segnico) che precede l’accertamento visivo del reale come dato d’esperienza quotidiana, ma che nello stesso tempo lo compenetra in diversa misura, col risultato di sospendere le nostre convenzioni percettive fino a decretarne il carattere instabile e talvolta ingannevole. Né vera presenza né vera assenza. Abbiamo piuttosto a che fare con il processo delle cose e degli oggetti che, accedendo all’area del rappresentabile, custodiscono le tracce della loro genesi, oserei dire la loro incognita cosmica. Come sappiamo spetta agli artisti il compito di svelare tale processo, e di far capire come in esso sia in gioco appunto la natura conflittuale del vedere. È su questo crinale estetico, le cui fondamenta si trovano in Klee e Kandinski e forse già in Cézanne, che si avventurano Dina e Loredana nelle opere esposte, mettendo in luce la loro sensibilità e le loro doti creative.

 

Se Loredana accenna in una sua dicitura ai criptoplasmi, non lo fa certo ad arbitrio, poiché il plasma definisce per principio un’entità colta nel suo iter formativo. Dove il ‘cripto’ indica la cosa nascosta, trattenuta nelle pieghe dell’informe ma già sul punto di lasciar intuire le proprie coordinate visuali, il proprio modello di riconoscibilità, e direi il suo destino: curve vibranti, masse corporee autoavvolgentesi, eccetera. Nell’incisione dal titolo omonimo, il criptoplasma è materia cerebrale cisposa e venata, un dato tratto per la mens, per l’intelligenza ventura. L’orizzonte di riferimento, per restare alle intuizioni di Loredana, è quello di una biosfera immaginaria che gravita intorno a un organismo antropico o ad esso affine. Biosfera che titoli come “Organo cosmico” o “Astro-corpo” ci aiutano a localizzare. Si tratta insomma dell’iscrizione dell’organismo corporeo in uno spazio transfisico ed energetico onnicapiente: l’astro, il cosmo, l’ipotizzabile unità plasmatrice. Mentre Dina, i cui interessi propendono per un mondo declinato sul duplice versante dell’inorganico (la pietra nei suoi vari irradiamenti) e del vegetale, sembra oscillare tra il non ancora del tutto riconoscibile e un’evidenza figurale pressoché compiuta. Questa evidenza riguarda soprattutto le figure fitomorfe: alberi, cortecce, foglie, fiori. Asciutte e talune pressoché prive di contesto, dunque in sintonia con ipotizzabili superfici arabescate, queste figure creano una curiosa aura fantasmatica, nonostante si appoggino di regola a uno scrupoloso trattamento analitico dell’oggetto. Corpi vegetali simulanti il distacco, sospesi in una sorta di zona franca, destinati per così dire al silenzio pensoso degli erbari, a una provvisoria quiescenza, quasi per venir protetti dalla vitalità piena del referente e dalla resa a un paesaggio riconoscibile. Immagini che, almeno le più stilizzate, trovano un’ideale empatia con l’arabesco appunto, ai confini cioè tra figurativo e astratto. Lo confermano alcuni fiori percorsi da capricciose asimmetrie, quasi desiderosi di non rivelare ipso facto la loro identità.. La tecnica del frottage, e penso al riguardo a certe tele di Marx Ernst, crea effetti supplementari di distanziazione, talvolta di straniamento.

 

Quanto alla temporalità della rappresentazione – mi riferisco beninteso alla mostra in corso - in Dina l’inchiesta sulla natura dell’esistente è per così dire distribuita in fasi successive. E cioé non attraverso una sintesi virtuale, realizzata di preferenza entro lo spazio dell’opera singola, come avviene in Loredana, piuttosto in episodi diversificati opera per opera, come se si trattasse di una narrazione ideale. Per usare la terminologia della semiotica, Loredana indulge sul paradigma – ossia la copresenza di segni rivelatori in un unicum – anche se i suoi paradigmi, ferme restando le omologie, vengono ordinati per serie. Dina invece lavora su sintagmi autonomi, unità figurali che compongono un fraseggio caratterizzato da evidenti balzi tonali, oscillanti tra astrazione e figura. A un estremo, tanto per semplificare, troviamo “Sorgente”, massa bianca che scaturisce dalla pietra viva, roccia-cascata o roccia-panneggio definita da una luminosità primigenia, sorgiva appunto, mentre all’altro estremo riconosciamo le sagome fitomorfe già citate, una per tutte i ramoscelli d’edera, di fattura spiccatamene realista. Ancora un’osservazione, per precisare quanto detto. In Loredana, l’elemento cosmico come ipotesi fondante dell’esistere tende ad affermarsi in sé, con ruolo metarappresentativo, mediante l’uso di forme geometriche semplici. Può essere un cerchio, può essere un quadrangolo. Forme che circoscrivono la composizione, ma nel contempo entrano in essa, la plasmano, lasciandovi la loro impronta in virtù di continue metamorfosi. La spirale, ad esempio, metamorfosi del cerchio. Spirale che il dipinto, con le sue dinamiche espressive e l’ondoso transitare degli elementi cromatici, rielabora in corpi in divenire: embrioni, sagome fetali o umanoidi, e quant’alto. Spesso il cerchio indizia l’archetipo astrale, come testimonianza del fiat lux. Pensiamo non tanto al sole irradiante, quanto all’astro femminile-lunare, alla luna partoriente, alla luna della gravidanza cosmica.

 

In Dina, la dimensione cosmica appare invece differita, o solo postulata nel frammento e nella traccia. Sta in margini fluttuanti, in spazi neutri, in un gioco di curve ed ellissi variamente modulate, che potremmo interpretare come simbolici involucri o sudari, prendendo in prestito un’espressione di Dina. Tutto, insomma, dentro questo insieme, contribuisce a potenziare l’ordine della mancanza. Basterebbe osservare gli oggetti più enigmatici messi in scena. Oggetti d’origine lignea, come tutto lascia supporre, organismi vegetali còlti in fase autodecostruttiva, per modo di dire ossificati. Oggetti trascesi, che del legno ci restituiscono i tratti più problematici: vale a dire punti di fuga inquietanti, nodi o fori che alludono al dramma della lacerazione. E che dal profilo formale ci riportano inequivocabilmente all’occhio, qui promosso a emblema dell’assenza. Ed è proprio quell’occhio cieco e senza sguardo ad attirarci verso i luoghi del criptoesistente, mettendoci in allerta sulla cosiddetta “verità del visibile”. Occhio armato, in quanto racchiuso in un corpo fusiforme simile a uno stiletto o oggetto contundente. Arma difensiva e offensiva, se vogliamo. Jacques Derrida la definirebbe un contrassegno dello stile o sprone che presiede l’opera stessa. Così il filosofo francese scriveva riferendosi alla scrittura di Nietzsche: “Lo stile-sprone, lo stile spronante, l’oggetto lungo e oblungo, arma da parata e altresì arma che fora”. E si potrebbe continuare.

 

Gilberto Isella

 

 

Alla strenua ricerca della natura testo di Rosa Pierno

 

esposizione di Dina Moretti e Loredana Müller

 

 

 

Tutta percorsa all’insegna della natura, la mostra delle due artiste ticinesi, Dina Moretti e Loredana Müller, è la dimostrazione di quanto uno sguardo fortemente direzionato, fino a sprofondare nelle oscurità della materia, non possa che restituire la vera immagine della natura: il suo aspetto puramente mentale.

 

 

 

La levità dei segni, nati da un’investigazione che tenta di scovare l’invisibile almeno nelle sue ultime parvenze percepibili, fa collezionare a Dina Moretti una serie di immagini parziali, di dettaglio, che mai tentano la totalità, ma si preoccupano di effettuare un’indagine che scavalca la particolarità della pianta per cogliere il segreto del suo sviluppo. Non è la ricerca della pianta originaria, ma il suo modo di fare figura, i suoi snodi, le direzioni in cui avviluppandosi cresce o, addirittura, il modo in cui ingloba i fori e nodi nella corteccia. Il dettaglio pare perdere sostanza, man mano che lo sguardo si avvicina. E il visibile s’ammanta di nebbia, di veli, dell’impossibilità di svolgere interamente la materia, di scorgere il motivo della variabilità vegetale. Piante interamente pensate, luminose, addirittura! Piante che possono collocarsi sul limine dell’organico, ove il dialogo tra bianco e nero o fra i grigi o i seppia in scala cromatica contribuisce a rendere ancora più impalpabile il costrutto visivo. Ciò che è vegetale sembra ritorcersi e andare a riempire le pagine del libro sulla natura di Dina Moretti, dove mai però compare il dato geometrico e le cose sono prese col solo movimento del disapparire. Le immagini si creano sulla superficie del foglio, agganciando il vuoto.

 

 

 

È col colore che, invece, Loredana Müller investiga il mondo, dalle piante deducendo un vellutato verde, luminoso e acquoreo oppure frantumando la materia vegetale secca e facendola mulinare in vortici che espellono lo spazio dal disegno, ma lo affastellano di tinte. È una natura con moto, che si dà alla percezione nel divenire delle aggregazioni e del rinfrangersi delle tonalità cromatiche con passaggi suadenti e morbidissimi. A volte il movimento è colto nell’istante della divisione cellulare, rendendo visibile a occhio nudo, ciò che l’artista immagina. Il colore ribolle o formicola, si placa o si addensa, caratterizzando ogni porzione di spazio. Lo spazio diviene ricettacolo di frammenti, vi si accalcano tramature vegetali, cellule, fiori colti al microscopio, strutture con filamenti, tessuti epiteliali, quasi un vocabolario delle tessiture organiche. Eppure si sente l’inorganico, quasi come per una sinestesia, sempre in azione e in ogni dove. È ciò che appare evidente osservando i medaglioni color terracotta in cui persino la figura umana è riprodotta al modo di un calco, di un ritrovamento archeologico, insomma sempre con una trasposizione che denuncia la sua alterità rispetto al dato reale. Alcune figure affiorano da un reticolo di segni poiché è il segno, la sua centralità ad essere in questione. La distanza tra essere umano e materiale vegetale o organico viene, in tal modo, a cadere, esibendo la sua ininfluenza. Ciò che conta è che la natura mostri i suoi segni.

 

 

 

febbraio 2018, Rosa Pierno

 

Tondi incisi, L. Müller " Uomini di terra"  diametro 27,5 cm - incisione e pastello 2018 su carta di cotone, lastra di zinco 1/1-  torchio.